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Introduzione ad un (quasi) inedito di Adolf Hitler

Introduzione ad un (quasi) inedito di Adolf Hitler

[singlepic id=55 w=320 h=240 float=left]Dettato a Max Amann nell’estate del 1928, abbiamo il piacere di presentare sulle pagine del quotidiano “Rinascita” il secondo libro di Hitler edito da Thule Italia, o meglio, volendo contare separatamente i due volumi del Mein Kampf, il terzo.
Pur rappresentando un’elaborazione delle idee sulla politica estera tedesca come furono espresse nel secondo volume del Mein Kampf, non si tratta di una mera ripetizione degli scritti anteriori ma – come Telford Taylor giustamente afferma – “è nei particolari, nelle spiegazioni e nelle sfumature che sta il suo principale valore storico”.
Dalla controversa questione del Sud Tirolo all’amicizia con lo Stato italiano “sotto la guida del brillante statista Benito Mussolini”, dalla condanna dei capi della Germania imperiale dopo Bismarck alle osservazioni sull’esercito tedesco, dalle considerazioni sull’Unione Americana quale potenza economica alla teoria di una Russia niente “affatto uno stato anticapitalista”. Questi alcuni degli argomenti trattati attraverso i quali si potrà seguire lo svolgimento logico del pensiero politico di Hitler. Pensiero che da lì a qualche anno sarebbe divenuto azione. La disponibilità di questo testo è particolarmente importante per i lettori perché, oltre alla ripetizione di temi dal precedente lavoro di Hitler, il Mein Kampf – l’eterna lotta per la terra, la necessità per la Germania di conquistare ulteriore spazio vitale e l’importanza di combattere il nemico giudaico – affronta argomenti che oggi rivestono particolare rilevanza. Tra questi, l’analisi del ruolo economico degli Stati Uniti e della loro futura egemonia rispetto a un quadro mondiale che sarebbe stato da ciò alterato negli equilibri allora esistenti.
In questo documento, inoltre, appare manifesta la posizione di Hitler riguardo alle perdite – anche territoriali – subite dalla Germania a seguito del trattato di Versailles, rappresentanti uno dei leitmotiv del giovane movimento nazionalsocialista. Questi territori non costituivano, tuttavia, una priorità per il popolo tedesco, poiché la riannessione di piccole porzioni di suolo non avrebbe di certo mutato gli scenari futuri rispetto a conquiste di ben altre estensioni, così che, anche in questa sede, lo sguardo di Hitler è diretto a Est.
Qui, Hitler, non rifugge poi da quella che sarebbe stata la futura propaganda nazionalsocialista durante la guerra, indicando nella Germania l’unico baluardo contro la Russia bolscevica. In queste pagine, comunque, si spinge ben oltre, indicando ciò che in realtà fu la Rivoluzione d’ottobre: uno spodestamento dell’elemento germanico alla guida del regime zarista per opera di un branco d’incompetenti, inferiori in un’ottica razziale. Giungendo, in chiusura, all’assioma che “la Russia odierna è tutto, tranne che uno Stato anticapitalista. È, a dire il vero, un paese che ha distrutto la sua stessa economia nazionale ma solamente per dare al capitale della finanza internazionale la possibilità di un controllo assoluto”. Il favore con il quale il capitalismo tedesco guardava alla rivoluzione bolscevica ne era – per Hitler – una prova.

L’autenticità e la storia del documento
Data la comparsa in passato di un presunto diario di Adolf Hitler poi indicato come falso,1 della contraffazione di alcuni documenti nel volume Hitler: Sämtliche Aufzeichnungen 1905-19242 e di numerosi artefatti in un libro sui dipinti e disegni di Hitler,3 è necessario spendere qualche parola sulla storia e l’autenticità di questo libro.
Il primo riferimento pubblico dell’esistenza di un’altra opera di Adolf Hitler, si ebbe nel 1949, per mezzo di uno scritto di un ex ufficiale francese, Albert Zoller, Douze ans auprès d’Hitler (Dodici anni con Hitler).4 In esso era indicato che, nel 1925, Hitler diede inizio alla stesura di un libro inedito sulla politica estera. Nel 1953 Hugh R. Trevor-Roper pubblicò un’edizione in lingua inglese delle Conversazioni a tavola di Hitler 1941-1944,5 stampata l’anno seguente in Italia dalla Richter. In questa edizione, alla data del 17 febbraio 1942, è fatto cenno a un nuovo libro di Hitler: “Nel 1925 ho scritto nel Mein Kampf (nonché in un testo non pubblicato) che il giudaismo mondiale vedeva nel Giappone un avversario fuori dal suo tiro”. Qui Hitler senza dubbio allude alle dichiarazioni su questo problema nel Mein Kampf, volume 2 (pp.), dettato a Max Amann nel 1925.
Intanto, nel maggio del 1951, anche l’Istituto di Storia Contemporanea di Monaco di Baviera aveva saputo da Erich Lauer dell’esistenza di un altro libro. A Lauer, che aveva pubblicato una serie di canzonieri per la Eher-Verlag, venne mostrato negli anni ’30 il manoscritto di un libro di Hitler. Josef Berg, l’uomo che glielo mostrò, ne riferì in dettaglio all’Istituto nel mese di settembre del 1958.6 Berg era stato un collega di Max Amann già dai primi anni della casa editrice centrale dello NSDAP, la Franz Eher Nachfolger.7 Nel gennaio del 1935, Berg assunse alla Eher il controllo del settore editoriale, e quindi del manoscritto. Egli sostenne che Hitler lo dettò ad Amann e che, oltre alla copia in salvo alla Eher-Verlag, ne esisteva una seconda presumibilmente conservata presso l’Obersalzberg. Entrambe le affermazioni furono confermate dalla scoperta del manoscritto.
Quando, sulla base di queste informazioni, l’Istituto di Storia Contemporanea chiese aiuto a Gerhard L. Weinberg circa la localizzazione del manoscritto, questi lo aveva già cercato nei fascicoli tedeschi all’epoca siti ad Alexandria, in Virginia, dove erano stati microfilmati congiuntamente dalla American Historical Association e dalle autorità americane prima della loro restituzione alla Repubblica Federale Tedesca. Nell’estate del 1958 Weinberg trovò un documento, accantonato come bozza del Mein Kampf e che identificò come il tanto ricercato manoscritto. In allegato al documento era presente una nota di confisca, nella quale si indicava il suo sequestro dalla Eher-Verlag da parte di un ufficiale americano nel maggio 1945 nonché l’asserzione di Josef Berg – all’atto della consegna – che si sarebbe trattato di un lavoro scritto da Hitler più di quindici anni prima. Poco dopo il sequestro, un microfilm fu realizzato per l’autorità inglese e l’originale fu riportato, con altri documenti, negli Stati Uniti. Nel Record Center di Alexandria venne archiviato come EAP 105/40 e, in seguito al trasferimento all’Archivio federale tedesco, come BA, N 1128 (Hitler), volume 21.8
Nel 1961, il manoscritto fu pubblicato per la prima volta per la serie “Quellen und zur Zeitgeschichte Darstellungen” (Fonti e relazioni di Storia Contemporanea) edita dall’Istituto di Storia Contemporanea. Due anni dopo seguirono una traduzione in lingua francese9 e una in inglese,10 la prima senza introduzione e con solo alcune note con omissione dell’autore – Gerhard L. Weinberg –, la seconda oggettivamente mal tradotta dove l’improvvisata prefazione di Telford Taylor si rivelò un estratto del commento e delle note del Professor Weinberg.
Quando la pubblicazione tedesca del 1961 fu annunciata in Germania, Albert Speer annotò nel suo diario che Baldur von Schirach e Rudolf Hess la considerarono come una frode, mentre lui ricordava che Hitler, al momento della costruzione del Berghof, aveva “accettato un anticipo di centomila marchi” dalla Eher-Verlag “per un manoscritto che egli – per ragioni di politica estera – non desidera ancora veder pubblicato”.11
Immediatamente dopo la prima pubblicazione, la comunità accademica valutò il documento autentico, così come gli autori dei principali articoli apparsi a riguardo. Per quanto c’è dato conoscere, nessuno studioso ha contestato la validità del documento o l’identificazione di Hitler quale autore.
Diversi anni dopo, lo studioso tedesco Albrecht Tyrell scoprì nell’Archivio centrale dello Stato della Bassa Sassonia (Niedersächsischen Hauptstaatsarchiv Hannover) una lettera firmata da Rudolf Hess datata 26 Giugno 1928. Hess rispondeva alla richiesta di un appuntamento da parte di Bernhard Rust, affermando che “Herr Hitler è probabile che sia a Berlino per diversi giorni all’inizio di luglio. Una visita anticipata del camerata Rust può essere difficilmente presa in considerazione, poiché Herr Hitler probabilmente sarà lontano da Monaco prima del suo viaggio a Berlino, per scrivere il suo libro”.12 Questo documento dimostrava non solo che Hess era in quel momento a conoscenza del lavoro di Hitler su un nuovo libro – il secondo volume del Mein Kampf era già in vendita –, ma confermava anche la data suggerita per l’origine del manoscritto.

Le origini del libro
Il contenuto del libro coincide, infatti, con l’arco di tempo – fine giugno e inizio luglio 1928 – indicato nella lettera di Rudolf Hess. Tutti gli eventi politici, ai quali il manoscritto fa riferimento, occorsero in quel determinato periodo: i numerosi attacchi a Gustav Stresemann, all’epoca ancora in vita (p.), il commento sull’occupazione della riva sinistra del Reno (p.) e la mancanza di riferimenti al piano Young. Nella prefazione, Hitler parla di due anni dalla pubblicazione nel 1926 del capitolo sulla questione sudtirolese tratta dal secondo volume del Mein Kampf. In un altro passaggio (p.), fa riferimento alla distruzione della torre di Bismarck a Bromberg, agli inizi di maggio del 1928, come un evento che si è svolto “in questi ultimi mesi”. Il libro contiene inoltre vari riferimenti all’opera Jonny strikes up (p.), che andò in scena a Monaco di Baviera nel 1928 e fu violentemente attaccata dai nazionalsocialisti. In un altro passaggio ancora (p.), Hitler parla delle presunte perdite del partito nei primi cinque mesi dell’anno, utilizzando le stesse parole di un discorso del 13 luglio 1928. E infine, cita anche (pp.) un articolo apparso “oggi” nel Neuesten Münchener Nachrichten: quell’articolo apparve nell’edizione del 26 giugno 1928.
La data è così confermata due volte – dalla lettera di Hess e dai riferimenti nel testo – e corrisponde agli eventi dell’estate del 1928. Negli anni precedenti Hitler aveva comunque affrontato più volte le questioni di politica estera. Poiché questi temi, in particolare i rapporti tesi con l’Italia per la questione sudtirolese, sono tra i punti focali di questo lavoro, è necessario fare un passo indietro.
Hitler aveva già esaminato il tema della futura politica estera nazionalsocialista prima del tentativo di putsch del novembre 1923, ponendo l’accento sulla particolare importanza delle relazioni italo-tedesche. Aveva ormai già deciso per un’alleanza con l’Italia concludendo, il 14 novembre 1922, che “a tal fine, la Germania deve fare una chiara e decisa rinuncia ai tedeschi del Sud Tirolo”.
Alla fine della Prima guerra mondiale, dal trattato di pace con l’Austria, fu concessa all’Italia l’annessione della provincia austriaca del Tirolo fino al passo del Brennero. Questo cambiamento portò sotto il controllo italiano sia quegli abitanti nella parte più meridionale, in prevalenza italiani, che quelli d’origine tedesca, più vicini alla nuova frontiera. Nei discorsi e nei dibattiti politici del tempo, questo problema era generalmente indicato come “questione sudtirolese”.
Dopo il fallito colpo di stato, Hitler cominciò in carcere a comporre il Mein Kampf. Il primo volume, pubblicato nel 1925, conteneva sì alcune affermazioni sulla politica estera, ma questi problemi furono trattati più approfonditamente solo con la pubblicazione del secondo volume nel 1926. La posizione di Hitler sulla questione sudtirolese era già allora contestata. A quel tempo la popolazione di lingua tedesca del Sud Tirolo era probabilmente, in termini di vita culturale, tra le popolazioni più oppresse d’Europa, e non stupisce quindi che, quanti si consideravano particolarmente nazionalisti, guardassero a essa con una certa attenzione.
Così Hitler, come detto, pubblicò un capitolo dedicato a questo tema tratto dal Mein Kampf13 in una speciale ristampa con una prefazione datata 12 febbraio 1926. Nella prefazione a quest’opuscolo, dal titolo “La questione sudtirolese e il problema dell’alleanza tedesca”, Hitler si lamentava del fatto che con riferimento al Patto di Locarno la stampa si fosse interessata esclusivamente del Sud Tirolo. Hitler vedeva questo interesse come un semplice pretesto per fomentare delle agitazioni contro il “fenomenale genio di Mussolini” – un assunto che ripete molte volte nel manoscritto del 1928.
L’anno seguente – il 1927 – apparve il lavoro di Alfred Rosenberg Der Zukunftsweg einer deutschen Aussenpolitik (Il futuro orientamento della politica estera tedesca). Le idee erano, nel complesso, le stesse di quelle presenti nel Mein Kampf: in particolare l’affermazione che il “Lebensraum” (lo spazio vitale) doveva essere ottenuto nell’Europa dell’Est; la Francia e la Polonia quali nemici della Germania, di contro all’Inghilterra e all’Italia “non affette” dall’imperialismo etnico. Inoltre, le dichiarazioni sull’Italia rilevavano che Mussolini, anche se non si era ancora espresso contro gli ebrei, aveva effettivamente riconosciuto il pericolo della massoneria e la stava combattendo. Ecco perché – secondo Rosenberg – la questione sudtirolese fungeva solo da pretesto per l’opposizione verso Mussolini, quantunque fosse mal consigliato nella gestione del problema. L’Italia doveva cercare il suo futuro nel nord dell’Africa e nell’Adriatico, e di conseguenza muovere guerra contro la Francia e la Jugoslavia. Ciò avrebbe richiamato l’Italia verso la Germania e, con la scomparsa della questione sudtirolese, si sarebbe dimostrato che non era nell’interesse italiano ostacolare l’unione dell’Austria alla Germania (pp.).
Il 30 marzo 1927, Hitler rilasciò delle dichiarazioni decisamente positive su Mussolini e sulla sua politica, mettendo in chiaro che non si sarebbe dovuto permettere alla questione del Sud Tirolo di contrastare una futura alleanza tra la Germania e l’Italia. Questa difesa di Mussolini portò a un attacco contro Hitler per mezzo di una lettera aperta della “Deutsch-volkischen Arbeitsgemeinschaft für Südtirol” (Gruppo di studio tedesco-popolare per il Sud Tirolo). Questa venne ristampata dal “Bund Deutscher Aufbau” (Lega per lo sviluppo tedesco) durante la campagna elettorale del 1930. Alla fine degli anni ’20, comunque, Hitler non avrebbe potuto ignorare facilmente la questione.
Nel 1928, il problema sudtirolese coinvolse anche il pubblico tedesco. Nel febbraio, l’opinione pubblica – in particolare austriaca – insorse a seguito dell’introduzione nel Sud Tirolo della lingua italiana per l’educazione religiosa. Dopo un discorso del cancelliere austriaco Ignaz Seipel, Mussolini reagì con immediatezza e richiamò temporaneamente da Vienna l’ambasciatore Giacinto Auriti. Da marzo in poi, un’infiammata campagna stampa s’incentrò sulla questione finché il conflitto si risolse, all’inizio di luglio, con le dimissioni di Seipel, riportando così la situazione alla calma.
Nel frattempo, era iniziata in Germania la campagna per le elezioni del Reichstag del 20 maggio 1928, con un riacuirsi alla vigilia della questione sudtirolese utilizzata contro il movimento nazionalsocialista. Gli attacchi culminarono con dei cartelli elettorali – stampati dal Partito socialdemocratico e recanti la scritta “Adolf Hitler smascherato” – comparsi a Monaco il giorno delle elezioni. Erano inoltre state diffuse delle illazioni circa dei presunti aiuti finanziari di Mussolini tanto a Hitler quanto a Franz Ritter von Epp (candidato anch’esso dello NSDAP) in cambio della loro perorazione per una rinuncia del Sud Tirolo. Hitler e von Epp intrapresero di conseguenza delle azioni legali. Hitler volle rispondere agli attacchi immediatamente. Aveva già parlato della questione sudtirolese il 19 maggio a Monaco di Baviera, con parole simili a quelle riportate in questo manoscritto. Al tempo stesso, una riunione del partito nazionalsocialista fu annunciata per il 23 maggio 1928, nel Bürgerbräukeller; a questo incontro Hitler ribatté a lungo alle diffamazioni circa le posizioni del movimento sul Sud Tirolo.
A luglio si registrò una temporanea attenuazione del conflitto per la questione sudtirolese. Questa tregua fu accolta favorevolmente dai nazionalsocialisti perché diminuiva l’agitazione anti-italiana, offrendo anche l’occasione per muovere un attacco a Seipel. Rudolf Hess terminò la discussione di questo tema con un articolo del 27 luglio, “Hitler, il Sud Tirolo e la stampa di estrema destra”, ricorrendo alle oramai usuali argomentazioni. Dopo il 23 maggio, comunque, per diverse settimane Hitler non parlò in pubblico. Solo il 6 luglio fece un breve intervento nel corso di una riunione per il reclutamento delle SA a Monaco di Baviera. Il suo primo importante discorso dopo il 23 maggio fu il 13 luglio, a Berlino, incentrato sulle tematiche di politica estera. Questo discorso presentava dei passaggi il cui contenuto, e talvolta anche il testo sono corrispondenti a quelli del documento oggetto del nostro studio.
Questa breve panoramica degli eventi politici della prima metà del 1928 ci consente perciò di individuare le motivazioni di Hitler per la composizione del presente manoscritto. Il contenuto complessivo è talmente interconnesso, che una lunga interruzione nella dettatura è molto improbabile. Tuttavia, poiché Hitler avrebbe difficilmente avuto il tempo di un tale sforzo durante la campagna elettorale, si può presumere che non abbia cominciato il libro se non dopo le elezioni del 20 maggio. In queste elezioni, i nazionalsocialisti ottennero 840.000 voti e 12 seggi al Reichstag su un totale di 30.738.000 voti validi e 401 seggi. Anche se il Partito salutò il risultato come una vittoria, le cifre mostrarono chiaramente che sarebbe stato necessario del tempo prima che una porzione più ampia dell’elettorato abbracciasse la causa nazionalsocialista. Inoltre, risultava evidente che almeno una parte della colpa fosse da imputare alla linea di politica estera del partito. Quando Hitler analizzò i risultati delle elezioni, pensò sicuramente agli ultimi giorni della campagna elettorale – e quindi alla questione sudtirolese. Questo spiega perché, nella prefazione al testo, egli menzioni l’“opuscolo sul Sud Tirolo” affermando che è diventato “sempre più evidente” per lui “nel corso degli ultimi due anni” che il documento presupponeva già una visione nazionalsocialista da parte del lettore. Egli, ora, desiderava offrire la fondatezza delle sue opinioni “che gli attacchi dell’opposizione, non solo hanno rafforzato in questi ultimi anni, ma hanno anche risvegliato in una qualche misura nel folto gruppo degli indifferenti”. Può dunque essere accolto con certezza il fatto che Hitler iniziò la dettatura del libro tra le ultime settimane di giugno e la prima settimana di luglio del 1928.

Perché il manoscritto non fu pubblicato?
L’esistenza del documento solleva, naturalmente, l’interrogativo sul perché non sia stato pubblicato dalla Eher- Verlag. È evidente dal testo stesso che si trattasse di un libro e non di un documento segreto, come si è inoltre evinto dalla già citata lettera di Hess. È altresì chiaro che, dopo la dettatura, non avvenne alcuna revisione o correzione, al contrario di quanto si verificò per i volumi del Mein Kampf. La prima versione del manoscritto fu soltanto accantonata senza che fosse approntata per una stampa, né subito, né in seguito. Non sussistono delle prove conclusive sul perché il libro non venne pubblicato, tuttavia possono essere avanzate alcune ipotesi plausibili.
È molto probabile che Amann stesso abbia consigliato a Hitler di astenersi dalla pubblicazione, almeno temporaneamente, in ragione degli avvenimenti dell’estate 1928. Come capo della Eher-Verlag, sapeva che il Mein Kampf presentava della difficoltà di vendita, particolarmente in quell’anno: fu l’anno peggiore dalla comparsa del primo volume, come mostrato dal registro dei diritti indicante solo 3.015 copie vendute. Un nuovo libro di Hitler sarebbe quindi immediatamente entrato in competizione con il Mein Kampf. Si aggiunga che, proprio in quel periodo, il partito fu costretto, per ragioni finanziarie, ad annullare il suo raduno annuale; ci si poteva quindi aspettare che la casa editrice del partito pubblicasse un libro che avrebbe reso pressoché impossibili le vendite del secondo volume del Mein Kampf? Non a caso Max Amann fu sempre elogiato dal suo ex compagno di guerra, Adolf Hitler, come un ottimo uomo d’affari.
Un ulteriore motivo per la mancata pubblicazione potrebbe risiedere nel fatto che, entro breve tempo, sarebbero state inevitabili delle revisioni significative al manoscritto. Dall’estate del 1929 in poi, lo NSDAP fu impegnato nella lotta contro il Piano Young per la questione delle riparazioni e della fine dell’occupazione (questioni che naturalmente non erano menzionate nel manoscritto). Stresemann, che appare nel libro come il nemico per antonomasia, era morto nel mese di ottobre dello stesso anno. Si susseguirono rapidamente, inoltre, degli eventi politici ed economici di rilevante importanza, così che Hitler difficilmente avrebbe trovato il tempo per la necessaria revisione del manoscritto.
Altre considerazioni possono aver contribuito a giungere alla conclusione che la pubblicazione fosse inopportuna. Nel 1928, Alfred Hugenberg divenne capo del Partito popolare tedesco-nazionale (Deutschnationale Volkspartei). Un nemico acerrimo della repubblica di Weimar che alleandosi con Hitler e sostenendolo nel 1929, in occasione del referendum contro il Piano Young, partecipò all’ascesa dello NSDAP. A questo punto, le esternazioni presenti nel manoscritto contro i politici borghesi sarebbero dovute essere almeno smussate. È interessante a questo proposito notare che, proprio allora, fu apportata una delle poche modifiche sostanziali al testo del Mein Kampf: un insulto rivolto alla borghesia tedesca venne infatti rimosso.
Nella sua prefazione alla prima edizione di questo manoscritto, Hans Rothfels accennò anche alla possibilità che alcune considerazioni di politica estera avrebbero indotto lo stesso Hitler alla decisione di non pubblicare l’opera. L’osservazione già menzionata di Speer parla a sostegno di tale ipotesi, citando “ragioni di politica estera” per la mancata pubblicazione. L’esplicita approvazione per una guerra volta a conquistare delle più vaste aree e il rifiuto ricorrente della restaurazione dei confini del 1914 come obiettivo della politica tedesca sono tra i passaggi che avrebbero sconsigliato la pubblicazione della “posizione di politica estera” di Hitler, in particolare nei primi anni dopo il 1933.
Le considerazioni di cui sopra – basate su un attento esame della situazione del momento e sul contenuto del documento – hanno offerto alcune risposte alla domanda sul perché il manoscritto non fu pubblicato durante la vita di Hitler, senza tuttavia poter essere univoche e definitive.

L’importanza del testo
Il testo costituisce un’importante fonte sugli anni in cui Hitler lottava per assumere il potere, fornendo una visione non dissimulata della sua ideologia, come della sua personalità. Pochi uomini hanno influenzato il mondo moderno in modo così incisivo. Le anse della sua filosofia possono essere seguite anche altrove, ma qui al lettore appaiono prima che Hitler apportasse delle correzioni e ne modificasse il contenuto. Il documento attesta la coerenza nella sua visione del mondo tra la scrittura del Mein Kampf e la conquista del potere in Germania nel 1933. In un momento in cui molti consideravano il suo movimento come scarsamente rilevante – soprattutto dopo le elezioni che gli conferirono meno del 3 per cento delle preferenze – Hitler dettò un libro che riprende molti dei pensieri che espresse frequentemente in quegli anni. Lo studio di questo materiale fornisce un contributo rilevante alla comprensione della persona di Hitler nella lotta per il potere in Germania, e dà indizi importanti per la sua politica futura come cancelliere del Reich.

Tratto da Rinascita del 16 marzo 2011

Anche sul web: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=7099

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Storia di un’ascesa annunciata

Storia di un’ascesa annunciata

A distanza di quasi cinquant’anni torna nelle librerie italiane un manoscritto misconosciuto del Führer

di Luca Leonello Rimbotti

[singlepic id=54 w=320 h=240 float=left]Il “secondo libro”, oppure il “libro segreto”: così è stato per decenni conosciuto – o meglio sarebbe dire, misconosciuto – il testo, privo di intitolazione, che Hitler dettò nel 1928 al suo collaboratore e vecchio commilitone Max Amann, che dirigeva la casa editrice Franz Eher di proprietà del partito nazionalsocialista. Lo si è detto a lungo “segreto” perché lo stesso suo autore, probabilmente per motivi di opportunità politica, lo mise da parte, a quanto ne sappiamo in due copie (una presso la casa editrice a Monaco, l’altra all’Obersalzberg), rimandandone sempre la pubblicazione, che avvenne solo molti anni dopo la sua morte. Ritrovato il dattiloscritto, di cui si aveva memoria attraverso varie testimonianze e che giaceva negli archivi americani dove era stato portato dopo la guerra, ne venne fatta una prima edizione tedesca nel 1961 – intitolata Hitlers Zweites Buch. Ein Dokument aus dem Jahr 1928, a cura di Gerhard L. Weinberg – cui ne seguirono due anni dopo una francese e una inglese. Nel 1962 la Longanesi ne pubblicò la prima edizione italiana, intitolandola Il libro segreto di Hitler, e premettendovi l’introduzione di Telford Taylor. Oggi, a distanza dunque di quasi un cinquantennio, l’opera di Hitler riappare nelle librerie italiane con il titolo Politica nazionalsocialista. Oltre il Mein Kampf, ed è pubblicata dalla Casa Editrice Thule Italia. L’edizione è arricchita da un’introduzione di Marco Linguardo, che è densa di notizie anche poco o punto note sull’origine del libro, le prove di autenticità, i motivi della sua mancata pubblicazione. Si tratta di una scelta oculata, per più motivi. Intanto, perché copre un vuoto storiografico ormai annoso, mettendo così di nuovo a disposizione del lettore italiano un importante documento di storia politica del Novecento. Un po’ anche perché la nuova edizione del libro di Hitler – com’è noto, concernente per lo più argomenti di politica estera, ma non solo – si inserisce in un momento di particolare fertilità degli studi hitleriani, che hanno visto succedersi in rapida sequenza la ripubblicazione delle Conversazioni a tavola e dei Verbali di guerra, entrambi a cura della Libreria Editrice Goriziana, cui si è aggiunta un’altra versione delle “conversazioni”, uscita col titolo Idee sul destino del mondo per i tipi delle Edizioni di Ar. Abbiamo dunque in mano un materiale ancora ben vivo, fresco, al centro dell’interesse degli studiosi, e in certi punti in grado di offrire sorprendenti spunti anche intorno a problemi della nostra epoca. In ogni caso, si apre qui uno squarcio su un periodo storico – l’estate del 1928, quando con tutta certezza venne stilato il testo – in cui il partito di Hitler versava in condizioni non brillanti, non riuscendo ad andare alle ultime elezioni oltre un modesto 3% di consensi, con soli dodici seggi al Reichstag. Ma Hitler, si sa, non era tipo da scoraggiarsi davanti a queste cifre. Scorrendo le pagine del suo libro noi ritroviamo infatti la stringente coerenza delle sue idee, non disgiunta da quella dose di sicurezza nella prossima vittoria, che non gli mancò mai neppure nei momenti di più cocente sconfitta. Politica nazionalsocialista è un libro di attualità, nel senso che dibatte argomenti come la crisi della democrazia di Weimar – che pure in quei mesi stava vivendo la sua effimera stagione d’oro – e si riferisce anche a uomini, a situazioni e a polemiche contingenti, ma non può dirsi certo un instant book alla maniera dei nostri tempi, poiché racchiude gran parte delle convinzioni che Hitler, dopo averle già espresse in altra forma nel Mein Kampf, si porterà dietro a lungo. Una di queste convinzioni – destinata a costargli ben cara – era la necessità di stringere con l’Italia, oltre che con la Gran Bretagna, un’alleanza che permettesse alla Germania di volgersi poi liberamente verso Est, lo “spazio vitale” verso cui si guardava per assicurare al popolo tedesco un futuro di benessere. Nel periodo in cui Hitler dettava le sue pagine, in Germania saliva la temperatura a proposito della sorte del Tirolo meridionale, da Versailles assegnato all’Italia, ma come sappiamo densamente popolato da tedeschi. E dobbiamo ammettere che proprio questa minoranza era allora sottoposta a umilianti restrizioni – come il divieto di usare la lingua tedesca negli uffici pubblici e nelle scuole – da parte del governo fascista, intenzionato a italianizzare l’Alto Adige con le buone o con le cattive. Hitler, che mise l’amicizia con l’Italia ai primi posti della sua agenda di politica estera, impose la sordina al problema, guadagnandosi l’ostilità di tutto lo schieramento nazionalista tedesco. Le pagine dedicate all’Italia riservano ancora oggi eccezionali sorprese. Stupiranno non poco taluni giudizi hitleriani sulla nostra storia. Uno per tutti. Quando egli afferma che nel 1866 l’Italia, pur sconfitta dall’Austria, rese uno storico servigio alla Germania, “impegnando una parte rilevante dell’esercito austriaco” e rendendo con ciò possibile la vittoria tedesca a Sedan e quindi la nascita del Secondo Reich, fa un’osservazione stupefacente. Mettiamo tale asserzione in rapporto con la recente storiografia britannica (su tutti Mack Smith), che dileggia l’Italia facendone uno zimbello di inettitudine militare connaturata a tutta la nostra storia, e avremo un bel parallelo fra le opinioni di un nazionalista tedesco degli anni Venti del Novecento e un perfetto democratico degli anni Novanta. Le considerazioni svolte da Hitler sull’Italia, sulla sua storia nazionale, sulla sua collocazione geopolitica, sulla sua rinascita sotto il Fascismo, sono tutte da leggere. Esse mostrano l’originalità dei punti di vista di un singolare osservatore, capace di un’indipendenza di giudizio a suoi tempi – ma non solo ai suoi – assai rara. Del resto, Hitler stesso in questo suo scritto, oltre che un nazionalista, si definisce propriamente un socialista: “Sono un socialista. Non vedo davanti a me nessuna classe e ceto sociale, piuttosto quella comunità di popolo che è unita dal sangue, legata dal linguaggio e soggetta al medesimo destino”. Il concetto darwinista della lotta per la vita, applicato tanto ai popoli quanto agli individui (sebbene ricondotto alla necessità e non elevato a principio: “una guida politica saggia non vedrà mai nella guerra lo scopo della vita di un popolo, ma solo un mezzo per preservarla”), poi la dura necessità di guadagnarsi lo spazio per l’indipendenza, la superiorità della politica sull’economia, l’ammirazione per la gestione inglese dell’impero, gli ebrei responsabili della miseria tedesca, le analisi sulla capacità espansiva dell’America, tutte queste considerazioni, nuove oppure già conosciute, si saldano insieme in uno sguardo panoramico che è ancora oggi del più grande interesse, e non soltanto dal punto di vista storiografico. Non mancano infatti anche certe osservazioni critiche su questioni oggi all’ordine del giorno, quali ad esempio quelle sull’eugenetica, sui flussi migratori, sulla delocalizzazione industriale, sulla meritocrazia, sull’educazione alla responsabilità, sulla politica industriale capitalista che programma la pauperizzazione dei paesi sottosviluppati, che certo rendono il libro un documento ancora in grado di farsi intendere nel nostro tempo.

Tratto da Linea del 7 novembre 2010

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Giustizia e Onore

Giustizia e Onore

La dottrina Nazionalsocialista nel Diritto e dello Stato, un saggio del ’38, torna in stampa dopo più di 70 anni

di Luca Leonello Rimbotti

La cultura giuridica del nostro Paese, fortemente influenzata dal Diritto romano e ancorata a concezioni liberal-borghesi che si erano formate nel Risorgimento, era ben lontana da un’idea di Diritto legata a sentimenti identitari, che era invece molto radicata in Germania

[singlepic id=51 w=320 h=240 float=left]Un nuovo strumento viene messo a disposizione de­gli studi storici: la ripub­blicazione, a cura del­l’Associazione Culturale Thule Italia, di un notevole testo del 1938, La dottrina nazionalsocialista del diritto e dello Stato di Carlo Lavagna, arricchito di una prefazione di Sonia Michelacci. Dicia­mo subito che, anche a distanza di oltre settant’anni, il libro mantiene tutta la sua im­portanza anche oggi. Anzi, storicizzando la materia, esso ci permette di venire a cono­scenza sia dell’ideologia giuridica della “nuova Germania”, sia dell’opinione che i teorici italiani del tempo si erano fatti di quella dottrina. All’epoca uno dei non mol­ti studi in profondità sul pensiero politico dell’organicismo in auge nel Terzo Reich, il libro di Lavagna ripresenta infatti la tipi­ca dicotomia fra i due orientamenti fonda­mentali del diritto italiano e di quello ger­manico, che in quegli anni era considerato un vero e proprio discrimine ideologico: più individualista il primo, comunitario il se­condo. Così, infatti, venivano definiti i due sistemi, ma noi segnaliamo che la genera­lizzazione nascondeva un equivoco. La lot­ta contro il “diritto soggettivo”, che i nuovi giuristi del Reich impegnavano, era infatti indirizzata contro il “diritto romano”, ma con questo termine per solito si indicava – e ancora oggi si indica – per lo più il tardo diritto giustianianèo, non quello romano ve­ro e proprio.

Questo, infatti, come sappiamo almeno dal Mommsen, era anch’esso soprattutto comu­nitario: le istituzioni romane nel IV secolo avanti Cristo, il Senato, i magistrati, i cen­sori, «tennero alto potentemente e spesso violentemente l’amore del pubblico bene», come scriveva il vecchio storico tedesco. Si sa che dopo, dalle XII Tavole in poi, ma so­prattutto in epoca imperiale e poi classica­mente con Giustiniano, il “diritto romano” di romano arcaico trattenne ben poco, di­sperdendosi in quella serie di garanzie in­dividualistiche che, per l’appunto, erano combattute dai giuristi nazionalsocialisti. Lavagna sottolineò che il diritto tedesco va­rato dopo il 1933 riscoprì la «maniera orga­nico-unitaria» che era stata del giurista Ot­to von Giercke, morto nel 1921, il quale fu tra i più convinti sostenitori di quello che veniva chiamato Genossenschaftsrecht, il diritto comunitario. Esso si incentrava sul­la considerazione che la comunità popola­re ha un diritto primario sull’individuo, es­sa viene prima, sia storicamente che come principio, e sovrasta l’individuo nel senso che costui, se astratto, se isolato dalla sua collettività di appartenenza, addirittura non ha rilievo sociale, e neppure giuridico. Su questa scia si posero quegli studiosi tede­schi che, con varie sfumature e di diversa formazione, parteciparono all’edificazione giuridica del Terzo Reich. Secondo Karl Larenz, uno dei maggiori studiosi tedeschi dell’epoca, la concezione comunitaria e “plurale” doveva avere assoluta preminen­za su quella del particolarismo “singolare” e individuale: «Il singolo ha una concreta personalità soltanto come essere vivente in comunità, come Volksgenosse», precisa­va Lavagna. Sonia Michelacci, nella sua densa prefazione, non manca di rilevare che l’orientamento giuridico nazional­socialista superava il formalismo nomi­nalista e rompeva la stessa tradizione oc­cidentale, parlando di cose che nei codi­ci borghesi dell’epo­ca moderna non com­paiono. Lo Spirito, l’Onore, la Fedeltà, che nelle proclama­zioni tedesche hanno rilievo giuridico in quanto attribuzioni es­senziali della persona, non hanno un loro corrispettivo nel diritto italiano, né in quello penale del 1930, né in quello civile del 1942, elaborato da Grandi e ancor oggi alla base del nostro ordina­mento. Il riferirsi dello stesso Fascismo al­l’antico “diritto di Roma”, non era che an­nuncio retorico: di fatto quel diritto cosid­detto “di Roma” aveva più cose in comune con quello giacobino-napoleonico, che non con quello romano-repubblicano. Il fatto ri­levante, comunque, è che i riferimenti na­zionalsocialisti al senso dell’appartenenza e dell’onore di rango – sul quale si misura la responsabilità individuale -, decisivi e qualificanti per i giuristi nazionalsocialisti, non ebbero un loro referente nei moderni diritti europei, e non lo ebbero neppure nei con­fronti di quello fascista: lo ebbero, invece, nel­l’arcaico diritto romano repubblicano’dove, ad esempio, l’onore so­ciale del civis aveva gran rilievo. Protagonista unico del nuovo rapporto socia­le e del nuovo Stato sorto con l’affossa­mento della Repub­blica di Weimar – di cui per altro non fu mai abrogata ufficialmente la costituzio­ne – era il popolo. E il concetto superiore che racchiudeva il protagonismo del popo­lo all’interno della macchina giuridica era lo Spirito di comunità, il Gemeingeist, ciò che Lavagna definiva come «quid energe­tico superiore», vale a dire l’elemento che tutto condizionava: era il «principio, cioè regola o volontà o forza o, comunque, qual­cosa di idealmente superiore che governa il reale». A lato di questo concetto sovrano troviamo elementi sociali e politici, che quel rivoluzionario diritto considerava giu­ridici: al di sopra di tutti, la figura del Fuhrer, principale fonte di diritto in quanto in­vestita della massima responsabilità, e quella della Gefolgschaft, il Seguito. E poi vi troviamo concetti etici, come appunto la fe­deltà e l’onore, anch’essi estranei alla con­cezione giuridica borghese, e invece consi­derati centrali in quella nazionalsocialista. La considerazione che presiede a questa in­terpretazione è una netta predominanza del politico sul sociale e del sociale sul priva­to. Assai bene rammenta la Michelacci che tale organicismo ha implicazioni di filoso­fia, e di filosofia idealistica, che finivano col considerare l’universalismo – come lo chiamava Lavagna – come la vera dimen­sione della legge: tutto si svolge nell’uni­verso della comunità, tutto è comunità: «Il diritto insomma – scrive la prefatrice – de­ve fondarsi sulla coesione tra i singoli e il tutto, deve essere “forma di vita della co­munità popolare”, un Sein (essere) e non solo un Sollen (Dover essere)». È così spiegato bene lo straordinario distac­co fra il diritto borghese e quello nazional­socialista, il cui fulcro è nella fusione tra pensiero giuridico e pensiero politico ma, soprattutto, nel fatto che «la scienza giuri­dica viene innalzata al rango di scienza mi­litante dove i giuristi sono chiamati a rico­prire la posizione di soldati politici del fron­te del diritto». Concezione inaudita per i co­dici liberali, inammissibile per il garantismo individualista, altamente sovversiva per il concetto di legge in ambito democratico-occidentale, e dunque massimo punto di rottura nella tradizione giuridica borghese degli ultimi tre secoli. Il libro di Lavagna, tutt’altro che ostico al­la lettura, si presenta come un ottimo mo­mento di conoscenza delle teorie e dei pun­ti di vista che i giuristi nazionaloscialisti di­spiegarono nelle varie fasi. A smentita in­fatti di un supposto “pensiero unico” domi­nante nel Terzo Reich, noi rileviamo una grande varietà di interpretazioni, da Koellreutter a Larenz a Hohn. Proprio quest’ul­timo, già sodale di Cari Schmitt, ne diven­ne avversario una volta entrato nelle SS, co­sì che il famoso Kronjurist ne ebbe la carriera limitata, anche se ugualmente ricca di riconoscimenti ufficiali. Ma Schmitt, che è rimasto di gran lunga il più famoso, non fu certo il solo a lavorare per un nuovo con­cetto comunitario di giustizia. Un intero spaccato di pensiero politico europeo del secolo XX è nelle pagine di Lavagna oggi riscoperte. Non solo norme giuridiche, dun­que, ma dottrina dello Stato, filosofia, eti­ca, concezione del mondo.

Tratto da Linea del 13 giugno 2010

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Quando l’archeologia si specchia nel tempo

Quando l’archeologia si specchia nel tempo

Luca Leonello Rimbotti

[singlepic id=52 w=320 h=240 float=left]È un vero e proprio viaggio nell’archeologia del Novecento. Non si parla infatti delle rovine di antiche civiltà, dei resti muti e affascinanti di templi o arene, ma della presenza ancora viva di testimonianze di pietra relativamente recenti. Molte città europee nascondono nei loro anfratti memorie antiche e meno antiche, alle volte appariscenti, altre volte nascoste, quasi timidamente appartate. Basta saper guardare, ed ecco che il passato improvvisamente riappare. In Germania, ad esempio. I bombardamenti a tappeto della Seconda guerra mondiale, che hanno semidistrutto la quasi totalità delle città tedesche, e poi la rapida ricostruzione del dopoguerra, non sono stati sufficienti per azzerare un tessuto urbano ancora leggibile. Il Medioevo gotico, il barocco, lo stile del neoclassicismo ottocentesco sono ancora ben presenti, uno accanto all’altro. E ben visibili sono anche le presenze del Terzo Reich, con un giacimento architettonico di tutto rispetto. Monumenti, edifici amministrativi, impianti sportivi, palazzi di rappresentanza, case d’abitazione, strutture militari: le nuove e modernissime città della Germania sono risorte accanto alle numerose realizzazioni che il “Reich millenario”, nella manciata di anni che ebbe a disposizione, riuscì a compiere. A volte soffocando ed emarginando, altre volte riutilizzando, la modernità ha comunque stabilito un suo modus vivendi con lo scottante passato “imperiale”: e qui noti un bassorilievo, là un fregio, certe volte un colonnato oppure un piccolo particolare, una data, un ornamento non scalpellato. Molti degli edifici che fecero corona a quella vicenda folgorante che fu l’ascesa del Nazionalsocialismo sono ancora lì. Basta lasciarsi guidare da un’eccezionale iniziativa editoriale, che con una serie di pubblicazioni sta dando vita a vere e proprie guide specialistiche. Esse ci introducono alla presenza leggibile e riconoscibile del Terzo Reich nelle moderne città tedesche. Un modo di fare storia, questo, che è documentazione, testimonianza, valorizzazione della memoria di un’epoca che ha comunque segnato il Novecento, e non solo. L’iniziativa è dell’Editrice Thule Italia, si intitola Orme del Terzo Reich, ed è concepita come una collana, Itinerari fra storia e architettura, di cui sono già uscite le due monografie su Berlino e su Monaco, e di cui è annunciata come prossima una terza, quella su Norimberga. Non semplici guide, in realtà, ma molto di più. Libri di storia, documenti iconografici, e con una cura per il dettaglio che comprova la scientificità e la qualità di questa originale iniziativa. Si presentano itinerari, si ricostruiscono gli scenari storici indicandocene le attestazioni sopravvissute, aprendoci così al racconto dell’epopea politica e insieme offrendo un ricchissimo repertorio fotografico, che rappresenta decine e decine di edifici come erano all’epoca e come sono oggi, con apparati didascalici preziosi, in grado di fornire una esauriente mappatura circa la consistenza e la dislocazione dei numerosi edifici ancora oggi visibili, di quelli modificati e di quelli andati distrutti. Parliamo dunque di uno strumento utilissimo per il ricercatore, per l’appassionato di storia, per il cultore degli stili architettonici e, soprattutto, per tutti coloro che hanno a cuore l’identità storica delle nostre città europee. Che sono veri scrigni di storia, stratificazioni secolari in cui la volontà, la lotta, il destino dei nostri popoli sono incisi quasi fisicamente sulla pietra. L’inserimento della struttura urbana qual’era prima del 1945 e qual’è oggi nel quadro di una ricostruzione storica e iconografica di prima qualità, permette al lettore di seguire passo passo gli avvenimenti politici e il contesto urbano in cui essi avvennero. A Monaco possiamo così, ad esempio, fermarci davanti al numero 41 di Thierschstrasse, la casa che Hitler abitò al tempo del Putsch del 1923, perfettamente tenuta, oppure davanti al terrazzo del terzo piano della Prinzregentenplatz, dove il Führer portò in seguito la sua residenza monacense, e che oggi è la ben conservata sede della polizia. Al numero 50 della Schellingstrasse, a poca distanza dalla famosa loggia ottocentesca della Feldhernnhalle, dove si celebravano i riti nazionalsocialisti, e che è stata risparmiata dai bombardamenti, si trova ancora l’edificio in cui, dal 1925 al 1931, fu stabilito il quartier generale della NSDAP. L’aquilotto in pietra, sovrastante l’architrave del portone, è ancora al suo posto: gli manca solo la testa. E, accanto, in quello che fu il negozio del fotografo Hoffmannn (le foto degli anni Trenta mostrano le vetrine piene di ritratti del Führer), oggi c’è un rivenditore di biciclette. Nella fitta serie di documenti del libro dell’Editrice Thule Italia dedicato a Monaco spicca la documentazione relativa a due grandi palazzi costruiti nel 1935, su progetto originale di Paul Troost: il Führerbau, al n. 21 della Arcisstrasse, dove vennero firmati gli accordi di Monaco, e il Verwaltungsbau, cioè l’edificio amministrativo del partito, sulla Meiserstrasse: entrambi intatti, oggi sono la sede dell’Accademia musicale (da cui sono state tolte solo le enormi aquile al di sopra dei loggiati esterni) e un Istituto di storia dell’arte. E la celebre Casa dell’Arte Tedesca è rimasta al suo posto, solo un po’ oltraggiata dal guard-rail di un recente sottopasso. Anche a Berlino, a parte i più noti edifici come lo stadio olimpico, numerose sono le tracce della nazi-Era armonicamente inserite nel quadro nella nuova megalopoli. Basta pensare al vasto edificio del Ministero dell’Aviazione di Goering, in puro stile neoclassico, oggi adibito a Ministero delle Finanze, sulla famosa Wilhelmstrasse. Oppure, all’ambasciata italiana costruita nel 1940, al palazzone dell’amministrazione comunale berlinese, costruito da Speer nel 1938, fino ai lampioni della Bismarckstrasse, che sono ancora quelli scelti dallo stesso Speer lungo l’Asse Est-Ovest da lui tracciato. Oppure, ancora, i numerosi monoblocchi dei bunker anti-aerei, la Casa dell’Arbeitsfront, l’abitazione di Leni Riefenstahl a Dahlem, il villaggio olimpico…decine, centinaia di documenti di pietra, grandi e piccoli. Forse è anche per questo che, come lamentano certi storici, in Germania il passato non passa.

Tratto da Linea del 24 gennaio 2010

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Padre Jorg, visionario o allucinato?

Padre Jorg, visionario o allucinato?

di Luca Leonello Rimbotti

[singlepic id=58 w=320 h=240 float=left]Si è ritagliato un suo piccolo posto nella storia. Lo troviamo in tutti i libri più importanti che si occupano delle primissime origini ideologiche del Nazionalsocialismo. A volte viene descritto addirittura come quello che fornì a Hitler le idee: Jörg Lanz von Liebenfels, a metà strada fra il monaco erudito e il visionario psichedelico, fu capace di immaginare fantastici mondi da apocalisse. Dipinse lo scenario della storia come una lotta manichea tra la razza ariana luminosa e quella tenebrosa degli uomini-bestia, attingendo dalla Bibbia, da antichi testi gnostici, aramaici, greci, da dimenticati libri apocrifi e da un’infinità di dettagli archeologici e filologici, nella certezza che l’Età dell’Oro, popolata in origine da un’umanità bella e nobile, fosse degenerata nel caos della modernità a causa degli incroci umani con gli animali. In questa sua «rappresentazione zoomorfa del principio del male», come l’ha definita lo storico Goodrick-Clarke, in realtà si ritrovano antichi incubi dell’uomo. La paura della bestia, e della bestia che è in noi, ha dato vita nel tempo ad ogni sorta di proiezione.
In materia, ci sono dei piccoli classici. Ad esempio, Il Bello della Bestia di Silvia Tommasi, in cui si è ripercorso l’immaginario “bestiale” da Lovecraft a Karen Blixen. Oppure, il famoso Bestie, uomini, dèi di Ossendowski, in cui l’Asia viene popolata di presenze oscure e terribili, fino a Bestie o dei? L’animale nel simbolismo religioso, in cui, tra l’altro, Grado G. Merlo sottolineava la pratica cristiana di attribuire agli eretici i tratti dell’immondo animale. Impostazione foriera di radicalismo tra opposte fazioni ideologiche, che avrà le sue ricadute nel Novecento. E proprio a questa mentalità giudeo-cristiana di associare la bestia al demoniaco, drammatizzando così al massimo il suo già robusto dualismo di fondo, si può far risalire la febbrile volontà di Lanz von Liebenfels di giudicare la vicenda storica come un continuo processo di corruzione, attraverso la promiscuità sessuale tra uomo superiore e uomo imbestiatosi.

Adesso le Edizioni Thule Italia ripropongono il testo certo più caratteristico di Lanz, Teozoologia. La scienza delle nature scimmiesche sodomite e l’elettrone divino, a cura e con la traduzione di Marco Linguardo. Si tratta di un vero unicum editoriale. Il bizzarro titolo ci rimanda direttamente all’epoca, il 1905, in cui il libro fu scritto. Le recenti scoperte scientifiche dei raggi X e della radioattività, di cui Lanz fu un appassionato studioso, lo portarono a diventare egli stesso uno sperimentatore, ottenendo anche svariati brevetti di motori e sistemi elettrici. Ne trasse le immagini del Theozoon, l’uomo divino fornito di poteri magnetici superumani, e del suo speculare semibestiale, l’Anthropozoon.
Questa nota futuristica, unita al tradizionalismo völkisch di cui Lanz era imbevuto e all’erudizione teologica, costituirono l’esplosiva miscela di una formula ideologica pericolosamente in bilico tra fantascienza e millenarismo pangermanista. Non sarà stato comunque un caso che il giovane viennese Lanz, assunti nel 1897 i voti monacali presso l’abbazia cistercense di Heiligenkreuz, si fosse dedicato non solo alla severa esegesi biblica, ma anche all’apprendimento di un sapere razzialista direttamente appreso dal suo istitutore conventuale, l’erudito Nidvard Schlögl, biblista e orientalista allora di fama. La teoria che «la radice di tutti i mali del mondo avesse effettivamente una natura animale subumana», come dice Goodrick-Clarke, si stilizzava in Lanz nel rappresentare la lotta cosmica tra l’ordine, di cui erano detti portatori i popoli bianchi dominatori, e il caos ingenerato invece dagli orgiasmi sessuali, con cui i popoli di colore avrebbero sedotto i signori, conducendoli a crescente rovina bio-psichica.
Questa idea fissa si era rafforzata in occasione del ritrovamento, avvenuto nel 1894 nello stesso monastero in cui Lanz ricoprì anche ruoli di insegnante, di una pietra tombale medievale, in cui compariva la scena di un antico aristocratico che teneva sotto i piedi una specie di animale. Da qui insorse nell’immaginario di Lanz una ricerca ossessiva di prove, che attraverso l’arte antica, certi obelischi e bassorilievi assiri, o i bestiari medievali, testimoniassero di quella pratica di ibridazione universale, che a un certo punto si saldò a idee di rigenerazione situate in un mitico futuro, in cui l’uomo – non diversamente da quanto tratteggiato da Nietzsche, che per il suo Superuomo usò il termine di Züchtung, che significa allevamento – si sarebbe purificato da ogni impurità attraverso la pratica di una selezione dei tipi migliori.
Lasciate entro pochi anni la tonaca e l’abbazia, Lanz dal 1900 entrò in contatto con ambienti del pangermanesimo, come quelli legati a Guido von List, Theodor Fritsch e Ludwig Woltmann. Non si sa come, riuscì ad entrare in possesso del castello di Werfenstein, sul Danubio, facendone la sede dell’Ordine del Nuovo Tempio, da lui fondato. Quanto poi alla sua rivista Ostara, che veicolava l’ideologia ariosofica in un misto di teosofia, cristianesimo ariano e pangermanesimo razzista, noi sappiamo da numerosi storici, a cominciare da Fest e Kershaw, che il periodico venne letto dal giovane Hitler. E, molto probabilmente, i due, che furono a Vienna e a Monaco in anni vicini, ebbero anche modo di conoscersi. Ma Hitler divenne ben presto un politico moderno e realista, e una volta al potere lasciò indisturbato Lanz, ma fece chiudere molti circoli dell’occultismo völkisch, giudicandoli confusionari.
Effettivamente, occorre dire che esiste da sempre nell’arte e nella psicologia umana un’associazione tra la bestia e l’uomo, che è circonfusa di pesanti inquietudini. Gli studiosi si sono spesso interrogati su quelle presenze animalesche così ricorrenti un po’ ovunque, dalle divinità egizie alla tavoletta di Narmer, in cui una figura di dominatore aggioga una forma subumana, alle cattedrali gotiche, sovrabbondanti di mostruose creature animali, alle placche dorate vichinghe, in cui si vedono bestie umanoidi, fino alle rappresentazioni legate al lupo, da alcuni studiosi rovesciate in miti sovrumani: per dire, anni fa Chiesa Isnardi studiò il lupo mannaro presente nelle tradizioni europee come un’immagine del Superuomo. In ogni caso, la strana figura del monaco Lanz – che ebbe tra i suoi estimatori personaggi come Lord Kirchner, August Strindberg e autorevoli biblisti del suo tempo – rimane ancorata a un’epoca in cui il progresso scientifico e il riemergere di arcaismi occulti si fusero in maniera impensata. Creando i presupposti di un’ideologia di massa che di lì a pochi anni avrebbe salito la ribalta mondiale.

Tratto da Linea del 21 febbraio 2010.