Breve analisi del (nazional) socialismo tedesco
I manuali di storia del pensiero socialista europeo omettono un particolare che consisterebbe di comprendere a pieno il fenomeno di una società solidale e collobarativa
di Luca Leonello Rimbotti
[singlepic id=57 w=320 h=240 float=left]Trascurare una componente essenziale del socialismo, la sua versione tedesca, che superò la concezione classista della vecchia socialdemocrazia di Bebel, non consente di capire come questa riuscì a pervenire al potere sotto la sigla del Nazionalsocialismo. Un socialismo nazionale, in Germania come altrove, già esisteva da tempo. Ma soltanto col partito di Hitler il legame fra socialismo e nazionalismo divenne effettivo e la loro compartecipazione ideologica, uscendo dai disegni teorici, fu in grado di creare una prassi quotidiana in mezzo al Popolo. Bisogna aggiungere che, negli anni recenti, numerosi studiosi hanno ampiamente riconosciuto alla NSDAP la sua funzione propriamente socialista. Con Rainer Zitelmann, Götz Aly o Pierre Ayçoberry, per dire dei più recenti, si è stabilita con sufficiente chiarezza la natura del socialismo nazionale hitleriano, tutta incentrata su istituzioni di partecipazione e promozione sociale (dal Servizio del Lavoro al Fronte del Lavoro, dalle cellule aziendali al dopolavoro), ma soprattutto sullo sviluppo di una mentalità comunitarista e anti-classista, che ricomprendeva allo stesso modo l’attacco alle ricchezze finanziarie, la sottomissione della proprietà dei mezzi produttivi all’autorità politica, l’estinzione del differenzialismo di classe fra colletti bianchi e colletti blu, l’erogazione di benefici sociali alle classi lavoratrici, l’igiene del lavoro, etc.
Tutte cose che, al loro centro, recavano, in ruolo ancor più importante che non le concrete provvidenze economiche, la creazione di uno stato d’animo socialista, l’affermazione di uno stile dì vita socialista, all’interno di un’intera società socialista: cioè, al fondo, davvero e nei fatti, solidale e collaborativa. Ciò che faceva sentire l’operaio e il dirigente, l’impiegato e il manovale, come pedine essenziali di un medesimo meccanismo, lavorare per il quale veniva percepito come l’ottenimento del più elevato valore sociale, di un onore di appartenenza fortemente egualitario.
Difatti, si parlava essenzialmente del socialismo come di un atto concreto, calato nel realismo, e non come di una dottrina utopica, quale sempre il socialismo era stato tratteggiato, anche nelle sue derive “scientifiche “. Poiché, così si scriveva, essenziale era avere a che fare «non con la teoria, ma con la realtà», dando vita ad «un nuovo socialismo senza ipotesi aprioristiche, senza linee prefissate e prescindendo da autorità storiche». Questa affermazione risale al 1935 ed è di Hans Schwarz van Berk, già membro dei Freikorps e a quella data caporedattore della rivista “Der Angriff”, fondata nel 1926 da Goebbels. Noi la troviamo, estratta come esemplare di tutto un clima ideologico, all’interno di un libro collettaneo pubblicato in quell’anno sotto gli auspici del ministro della Propaganda, e che riuniva numerosi interventi di elementi di spicco del Partito nazionalsocialista, in un testo – Deutsche Sozialisten am Werk – che voleva essere un po’ la summa del pensiero socialista del Terzo Reich. Oggi quel libro, col titolo II socialismo tedesco al lavoro, è stato tradotto e pubblicato dalla Thule Italia, una casa editrice che da tempo sta operando un prezioso lavoro di scavo e rimessa in valore di un patrimonio altrimenti dimenticato di storia politica europea del Novecento. Che interessa proprio quegli aspetti di socialismo organicista e di socialità avanzata presenti nel Nazionalsocialismo, che gli storici ufficiali stanno man mano rivalutando. Il socialismo tedesco al lavoro è un documento di rara importanza storica proprio perché raccoglie l’intero spettro delle applicazioni socialiste alla realtà politica dell’epoca, dal punto dì vista di quanti erano tra i protagonisti della rivoluzione sociale e politica iniziatasi nel 1933.
Nel libro sono presenti contributi dei ministri Darré e Ley, ma anche ad es. di Börger, il commissario del Lavoro, di Hilgenfeld, responsabile dell’assistenza sociale, di Köhler, esperto economico, e poi di molti altri funzionari, e persino del principe di Schaumburg-Lippe, membro delle SA e collaboratore di Goebbels, che scrive sui rapporti fra socialismo e tradizione. Alla luce del nuovo socialismo organico, vengono passati in rassegna lo Stato, i giovani, l’economia, i contadini, la burocrazia, e inoltre il ruolo del capitale (suddiviso fra capitale creativo di ricchezza e lavoro e capitale finanziario speculativo), la tecnica, la stampa, la libera iniziativa, la partecipazione statale alla programmazione e alla gestione aziendale e infine i rapporti culturali del nuovo socialismo con la storia germanica e il mito sociale della razza. Così, ogni comparto sociale, ogni aspetto dell’ideologia della solidarietà di popolo viene indagato in base ad un particolare realismo, che giudica la potenza del legame sociale a partire dall’essenziale considerazione che per socialismo si debba intendere una diversa e totale cultura della partecipazione. Oltre le classi, oltre le dinamiche di questa o quella organizzazione economica, ciò che contava era l’intima corrispondenza fra il lavoro e il popolo, fra i programmi e i bisogni, fra i ruoli sociali redistribuiti e la competenza. Poiché la selezione dei migliori — questo il nocciolo del particolare Deutscher Sozialismus della NSDAP – doveva scaturire da tutto il popolo, attingendo e promuovendo la qualità ovunque essa si trovasse, secondo il principio che il socialismo, lungi dall’essere un’utopia libresca o un pregiudizio classista, era soprattutto un «ordine del popolo». Il valore non solo economico, ma sociale ed etico del socialismo nazionale della NSDAP era ben rappresentato dall’accento posto sul concetto di volontariato, applicato a tutti gli ambiti del lavoro. Essenziale era l’entusiasmo con cui si dovevano offrire le proprie doti individuali al servizio della comunità: «La libertà tedesca è servizio volontario; e così, chi sta a capo di un’impresa, deve cercare di essere una guida, e non un superiore», scriveva Börger, riassumendo il senso altruistico della reciprocità socialista in chiave nazionale. La gerarchia socialista della competenza si affiancava a istituti cooperativi come quelli vigenti, ad es., nel comparto agricolo, in cui si promuovevano istituzioni di autogestione corporativa (come il Consiglio nazionale contadino, l’Assemblea regionale e quella locale) che andavano nel senso di un recupero dell’antica democrazia assembleare in uso nel diritto germanico e, al contempo, costituendo momenti di razionalizzazione produttiva e distributiva, che impedivano le speculazioni di mercato tipiche della prassi liberista. All’elevazione materiale e alla maturazione sociale delle classi lavoratrici teneva dietro il metodo della circolazione delle élites attraverso la promozione sociale della competenza, vera quadratura del cerchio del problema sociale e di quello politico. «Lo Stato socialista ha il compito dì spianare ovunque la strada alle forze vitali della Nazione e assicurare una loro cooperazione», scriveva il consigliere del Ministero dell’Interno Hans Fabricius. Fare in modo che «ogni strato sociale all’interno del popolo, possa ottenere i pieni diritti» voleva dire attivare, promuovere, sollecitare «le forze esistenti per il bene della comunità», mettendo gli elementi meritevoli del popolo nei ruoli decisionali.
Un socialismo della tradizione (il corporativismo operaio e contadino) e allo stesso tempo della massima efficienza (dinamismo nella selezione del competenza e nell’assistenza sociale) era dunque all’opera in quegli anni. Un fenomeno sociale che Maurizio Rosi nella sua articolata introduzione (che vale come ottimo corredo al testo, per i vasti rimai di alla cultura socialista-nazionaie tedesca, per i confronti e alternativi col pensiero liberale dei Popper e dei Mises, per evocazioni al platonismo sociale o alla singolare funzione che ebbero i “poeti lavoratori”, per l’inquadratura di concetto di “soldato del lavoro” etc.,), non diversamente dagli storici più avvertiti, giudica come il finale approdo delle secolari lotte operaie che invano, nei regimi liberali, avevano ricercato quelle conquiste che d’un colpo, attraverso una legislazione rapida e snella, vennero di fatto realizzate nel Terzo Reich. Ad es., tutto questo significava «che l’azienda si doveva evidenziare nell’essere all’avanguardia nel campo dell’applicazione della legislazione sociale… nell’innalzamento della produzione industriale e nella semplificazione dei processi produttivi, nel miglioramento del tenore di vita dei lavoratori e della situazione igienica lavorativa», innestando il tutto nel quadro del «cameratismo socialista» e della «responsabilizzazione socialista dell’intera comunità aziendale».
Sulla scorta di tutto ciò, si può dire con tutta pacatezza che, a fronte dell’individualismo asociale liberal e della sua pratica disintegratoria dei legami di solidarietà nazionale, il Deutscher Sozialismus, liberato in sede storica da certe interessate ipoteche, ha ancora oggi una sua parola da dire alle scompaginate e disorientate masse europee.
Tratto da Linea del 4 giugno 2011