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Storia di un’ascesa annunciata

Storia di un’ascesa annunciata

A distanza di quasi cinquant’anni torna nelle librerie italiane un manoscritto misconosciuto del Führer

di Luca Leonello Rimbotti

[singlepic id=54 w=320 h=240 float=left]Il “secondo libro”, oppure il “libro segreto”: così è stato per decenni conosciuto – o meglio sarebbe dire, misconosciuto – il testo, privo di intitolazione, che Hitler dettò nel 1928 al suo collaboratore e vecchio commilitone Max Amann, che dirigeva la casa editrice Franz Eher di proprietà del partito nazionalsocialista. Lo si è detto a lungo “segreto” perché lo stesso suo autore, probabilmente per motivi di opportunità politica, lo mise da parte, a quanto ne sappiamo in due copie (una presso la casa editrice a Monaco, l’altra all’Obersalzberg), rimandandone sempre la pubblicazione, che avvenne solo molti anni dopo la sua morte. Ritrovato il dattiloscritto, di cui si aveva memoria attraverso varie testimonianze e che giaceva negli archivi americani dove era stato portato dopo la guerra, ne venne fatta una prima edizione tedesca nel 1961 – intitolata Hitlers Zweites Buch. Ein Dokument aus dem Jahr 1928, a cura di Gerhard L. Weinberg – cui ne seguirono due anni dopo una francese e una inglese. Nel 1962 la Longanesi ne pubblicò la prima edizione italiana, intitolandola Il libro segreto di Hitler, e premettendovi l’introduzione di Telford Taylor. Oggi, a distanza dunque di quasi un cinquantennio, l’opera di Hitler riappare nelle librerie italiane con il titolo Politica nazionalsocialista. Oltre il Mein Kampf, ed è pubblicata dalla Casa Editrice Thule Italia. L’edizione è arricchita da un’introduzione di Marco Linguardo, che è densa di notizie anche poco o punto note sull’origine del libro, le prove di autenticità, i motivi della sua mancata pubblicazione. Si tratta di una scelta oculata, per più motivi. Intanto, perché copre un vuoto storiografico ormai annoso, mettendo così di nuovo a disposizione del lettore italiano un importante documento di storia politica del Novecento. Un po’ anche perché la nuova edizione del libro di Hitler – com’è noto, concernente per lo più argomenti di politica estera, ma non solo – si inserisce in un momento di particolare fertilità degli studi hitleriani, che hanno visto succedersi in rapida sequenza la ripubblicazione delle Conversazioni a tavola e dei Verbali di guerra, entrambi a cura della Libreria Editrice Goriziana, cui si è aggiunta un’altra versione delle “conversazioni”, uscita col titolo Idee sul destino del mondo per i tipi delle Edizioni di Ar. Abbiamo dunque in mano un materiale ancora ben vivo, fresco, al centro dell’interesse degli studiosi, e in certi punti in grado di offrire sorprendenti spunti anche intorno a problemi della nostra epoca. In ogni caso, si apre qui uno squarcio su un periodo storico – l’estate del 1928, quando con tutta certezza venne stilato il testo – in cui il partito di Hitler versava in condizioni non brillanti, non riuscendo ad andare alle ultime elezioni oltre un modesto 3% di consensi, con soli dodici seggi al Reichstag. Ma Hitler, si sa, non era tipo da scoraggiarsi davanti a queste cifre. Scorrendo le pagine del suo libro noi ritroviamo infatti la stringente coerenza delle sue idee, non disgiunta da quella dose di sicurezza nella prossima vittoria, che non gli mancò mai neppure nei momenti di più cocente sconfitta. Politica nazionalsocialista è un libro di attualità, nel senso che dibatte argomenti come la crisi della democrazia di Weimar – che pure in quei mesi stava vivendo la sua effimera stagione d’oro – e si riferisce anche a uomini, a situazioni e a polemiche contingenti, ma non può dirsi certo un instant book alla maniera dei nostri tempi, poiché racchiude gran parte delle convinzioni che Hitler, dopo averle già espresse in altra forma nel Mein Kampf, si porterà dietro a lungo. Una di queste convinzioni – destinata a costargli ben cara – era la necessità di stringere con l’Italia, oltre che con la Gran Bretagna, un’alleanza che permettesse alla Germania di volgersi poi liberamente verso Est, lo “spazio vitale” verso cui si guardava per assicurare al popolo tedesco un futuro di benessere. Nel periodo in cui Hitler dettava le sue pagine, in Germania saliva la temperatura a proposito della sorte del Tirolo meridionale, da Versailles assegnato all’Italia, ma come sappiamo densamente popolato da tedeschi. E dobbiamo ammettere che proprio questa minoranza era allora sottoposta a umilianti restrizioni – come il divieto di usare la lingua tedesca negli uffici pubblici e nelle scuole – da parte del governo fascista, intenzionato a italianizzare l’Alto Adige con le buone o con le cattive. Hitler, che mise l’amicizia con l’Italia ai primi posti della sua agenda di politica estera, impose la sordina al problema, guadagnandosi l’ostilità di tutto lo schieramento nazionalista tedesco. Le pagine dedicate all’Italia riservano ancora oggi eccezionali sorprese. Stupiranno non poco taluni giudizi hitleriani sulla nostra storia. Uno per tutti. Quando egli afferma che nel 1866 l’Italia, pur sconfitta dall’Austria, rese uno storico servigio alla Germania, “impegnando una parte rilevante dell’esercito austriaco” e rendendo con ciò possibile la vittoria tedesca a Sedan e quindi la nascita del Secondo Reich, fa un’osservazione stupefacente. Mettiamo tale asserzione in rapporto con la recente storiografia britannica (su tutti Mack Smith), che dileggia l’Italia facendone uno zimbello di inettitudine militare connaturata a tutta la nostra storia, e avremo un bel parallelo fra le opinioni di un nazionalista tedesco degli anni Venti del Novecento e un perfetto democratico degli anni Novanta. Le considerazioni svolte da Hitler sull’Italia, sulla sua storia nazionale, sulla sua collocazione geopolitica, sulla sua rinascita sotto il Fascismo, sono tutte da leggere. Esse mostrano l’originalità dei punti di vista di un singolare osservatore, capace di un’indipendenza di giudizio a suoi tempi – ma non solo ai suoi – assai rara. Del resto, Hitler stesso in questo suo scritto, oltre che un nazionalista, si definisce propriamente un socialista: “Sono un socialista. Non vedo davanti a me nessuna classe e ceto sociale, piuttosto quella comunità di popolo che è unita dal sangue, legata dal linguaggio e soggetta al medesimo destino”. Il concetto darwinista della lotta per la vita, applicato tanto ai popoli quanto agli individui (sebbene ricondotto alla necessità e non elevato a principio: “una guida politica saggia non vedrà mai nella guerra lo scopo della vita di un popolo, ma solo un mezzo per preservarla”), poi la dura necessità di guadagnarsi lo spazio per l’indipendenza, la superiorità della politica sull’economia, l’ammirazione per la gestione inglese dell’impero, gli ebrei responsabili della miseria tedesca, le analisi sulla capacità espansiva dell’America, tutte queste considerazioni, nuove oppure già conosciute, si saldano insieme in uno sguardo panoramico che è ancora oggi del più grande interesse, e non soltanto dal punto di vista storiografico. Non mancano infatti anche certe osservazioni critiche su questioni oggi all’ordine del giorno, quali ad esempio quelle sull’eugenetica, sui flussi migratori, sulla delocalizzazione industriale, sulla meritocrazia, sull’educazione alla responsabilità, sulla politica industriale capitalista che programma la pauperizzazione dei paesi sottosviluppati, che certo rendono il libro un documento ancora in grado di farsi intendere nel nostro tempo.

Tratto da Linea del 7 novembre 2010

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Giustizia e Onore

Giustizia e Onore

La dottrina Nazionalsocialista nel Diritto e dello Stato, un saggio del ’38, torna in stampa dopo più di 70 anni

di Luca Leonello Rimbotti

La cultura giuridica del nostro Paese, fortemente influenzata dal Diritto romano e ancorata a concezioni liberal-borghesi che si erano formate nel Risorgimento, era ben lontana da un’idea di Diritto legata a sentimenti identitari, che era invece molto radicata in Germania

[singlepic id=51 w=320 h=240 float=left]Un nuovo strumento viene messo a disposizione de­gli studi storici: la ripub­blicazione, a cura del­l’Associazione Culturale Thule Italia, di un notevole testo del 1938, La dottrina nazionalsocialista del diritto e dello Stato di Carlo Lavagna, arricchito di una prefazione di Sonia Michelacci. Dicia­mo subito che, anche a distanza di oltre settant’anni, il libro mantiene tutta la sua im­portanza anche oggi. Anzi, storicizzando la materia, esso ci permette di venire a cono­scenza sia dell’ideologia giuridica della “nuova Germania”, sia dell’opinione che i teorici italiani del tempo si erano fatti di quella dottrina. All’epoca uno dei non mol­ti studi in profondità sul pensiero politico dell’organicismo in auge nel Terzo Reich, il libro di Lavagna ripresenta infatti la tipi­ca dicotomia fra i due orientamenti fonda­mentali del diritto italiano e di quello ger­manico, che in quegli anni era considerato un vero e proprio discrimine ideologico: più individualista il primo, comunitario il se­condo. Così, infatti, venivano definiti i due sistemi, ma noi segnaliamo che la genera­lizzazione nascondeva un equivoco. La lot­ta contro il “diritto soggettivo”, che i nuovi giuristi del Reich impegnavano, era infatti indirizzata contro il “diritto romano”, ma con questo termine per solito si indicava – e ancora oggi si indica – per lo più il tardo diritto giustianianèo, non quello romano ve­ro e proprio.

Questo, infatti, come sappiamo almeno dal Mommsen, era anch’esso soprattutto comu­nitario: le istituzioni romane nel IV secolo avanti Cristo, il Senato, i magistrati, i cen­sori, «tennero alto potentemente e spesso violentemente l’amore del pubblico bene», come scriveva il vecchio storico tedesco. Si sa che dopo, dalle XII Tavole in poi, ma so­prattutto in epoca imperiale e poi classica­mente con Giustiniano, il “diritto romano” di romano arcaico trattenne ben poco, di­sperdendosi in quella serie di garanzie in­dividualistiche che, per l’appunto, erano combattute dai giuristi nazionalsocialisti. Lavagna sottolineò che il diritto tedesco va­rato dopo il 1933 riscoprì la «maniera orga­nico-unitaria» che era stata del giurista Ot­to von Giercke, morto nel 1921, il quale fu tra i più convinti sostenitori di quello che veniva chiamato Genossenschaftsrecht, il diritto comunitario. Esso si incentrava sul­la considerazione che la comunità popola­re ha un diritto primario sull’individuo, es­sa viene prima, sia storicamente che come principio, e sovrasta l’individuo nel senso che costui, se astratto, se isolato dalla sua collettività di appartenenza, addirittura non ha rilievo sociale, e neppure giuridico. Su questa scia si posero quegli studiosi tede­schi che, con varie sfumature e di diversa formazione, parteciparono all’edificazione giuridica del Terzo Reich. Secondo Karl Larenz, uno dei maggiori studiosi tedeschi dell’epoca, la concezione comunitaria e “plurale” doveva avere assoluta preminen­za su quella del particolarismo “singolare” e individuale: «Il singolo ha una concreta personalità soltanto come essere vivente in comunità, come Volksgenosse», precisa­va Lavagna. Sonia Michelacci, nella sua densa prefazione, non manca di rilevare che l’orientamento giuridico nazional­socialista superava il formalismo nomi­nalista e rompeva la stessa tradizione oc­cidentale, parlando di cose che nei codi­ci borghesi dell’epo­ca moderna non com­paiono. Lo Spirito, l’Onore, la Fedeltà, che nelle proclama­zioni tedesche hanno rilievo giuridico in quanto attribuzioni es­senziali della persona, non hanno un loro corrispettivo nel diritto italiano, né in quello penale del 1930, né in quello civile del 1942, elaborato da Grandi e ancor oggi alla base del nostro ordina­mento. Il riferirsi dello stesso Fascismo al­l’antico “diritto di Roma”, non era che an­nuncio retorico: di fatto quel diritto cosid­detto “di Roma” aveva più cose in comune con quello giacobino-napoleonico, che non con quello romano-repubblicano. Il fatto ri­levante, comunque, è che i riferimenti na­zionalsocialisti al senso dell’appartenenza e dell’onore di rango – sul quale si misura la responsabilità individuale -, decisivi e qualificanti per i giuristi nazionalsocialisti, non ebbero un loro referente nei moderni diritti europei, e non lo ebbero neppure nei con­fronti di quello fascista: lo ebbero, invece, nel­l’arcaico diritto romano repubblicano’dove, ad esempio, l’onore so­ciale del civis aveva gran rilievo. Protagonista unico del nuovo rapporto socia­le e del nuovo Stato sorto con l’affossa­mento della Repub­blica di Weimar – di cui per altro non fu mai abrogata ufficialmente la costituzio­ne – era il popolo. E il concetto superiore che racchiudeva il protagonismo del popo­lo all’interno della macchina giuridica era lo Spirito di comunità, il Gemeingeist, ciò che Lavagna definiva come «quid energe­tico superiore», vale a dire l’elemento che tutto condizionava: era il «principio, cioè regola o volontà o forza o, comunque, qual­cosa di idealmente superiore che governa il reale». A lato di questo concetto sovrano troviamo elementi sociali e politici, che quel rivoluzionario diritto considerava giu­ridici: al di sopra di tutti, la figura del Fuhrer, principale fonte di diritto in quanto in­vestita della massima responsabilità, e quella della Gefolgschaft, il Seguito. E poi vi troviamo concetti etici, come appunto la fe­deltà e l’onore, anch’essi estranei alla con­cezione giuridica borghese, e invece consi­derati centrali in quella nazionalsocialista. La considerazione che presiede a questa in­terpretazione è una netta predominanza del politico sul sociale e del sociale sul priva­to. Assai bene rammenta la Michelacci che tale organicismo ha implicazioni di filoso­fia, e di filosofia idealistica, che finivano col considerare l’universalismo – come lo chiamava Lavagna – come la vera dimen­sione della legge: tutto si svolge nell’uni­verso della comunità, tutto è comunità: «Il diritto insomma – scrive la prefatrice – de­ve fondarsi sulla coesione tra i singoli e il tutto, deve essere “forma di vita della co­munità popolare”, un Sein (essere) e non solo un Sollen (Dover essere)». È così spiegato bene lo straordinario distac­co fra il diritto borghese e quello nazional­socialista, il cui fulcro è nella fusione tra pensiero giuridico e pensiero politico ma, soprattutto, nel fatto che «la scienza giuri­dica viene innalzata al rango di scienza mi­litante dove i giuristi sono chiamati a rico­prire la posizione di soldati politici del fron­te del diritto». Concezione inaudita per i co­dici liberali, inammissibile per il garantismo individualista, altamente sovversiva per il concetto di legge in ambito democratico-occidentale, e dunque massimo punto di rottura nella tradizione giuridica borghese degli ultimi tre secoli. Il libro di Lavagna, tutt’altro che ostico al­la lettura, si presenta come un ottimo mo­mento di conoscenza delle teorie e dei pun­ti di vista che i giuristi nazionaloscialisti di­spiegarono nelle varie fasi. A smentita in­fatti di un supposto “pensiero unico” domi­nante nel Terzo Reich, noi rileviamo una grande varietà di interpretazioni, da Koellreutter a Larenz a Hohn. Proprio quest’ul­timo, già sodale di Cari Schmitt, ne diven­ne avversario una volta entrato nelle SS, co­sì che il famoso Kronjurist ne ebbe la carriera limitata, anche se ugualmente ricca di riconoscimenti ufficiali. Ma Schmitt, che è rimasto di gran lunga il più famoso, non fu certo il solo a lavorare per un nuovo con­cetto comunitario di giustizia. Un intero spaccato di pensiero politico europeo del secolo XX è nelle pagine di Lavagna oggi riscoperte. Non solo norme giuridiche, dun­que, ma dottrina dello Stato, filosofia, eti­ca, concezione del mondo.

Tratto da Linea del 13 giugno 2010

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Quando l’archeologia si specchia nel tempo

Quando l’archeologia si specchia nel tempo

Luca Leonello Rimbotti

[singlepic id=52 w=320 h=240 float=left]È un vero e proprio viaggio nell’archeologia del Novecento. Non si parla infatti delle rovine di antiche civiltà, dei resti muti e affascinanti di templi o arene, ma della presenza ancora viva di testimonianze di pietra relativamente recenti. Molte città europee nascondono nei loro anfratti memorie antiche e meno antiche, alle volte appariscenti, altre volte nascoste, quasi timidamente appartate. Basta saper guardare, ed ecco che il passato improvvisamente riappare. In Germania, ad esempio. I bombardamenti a tappeto della Seconda guerra mondiale, che hanno semidistrutto la quasi totalità delle città tedesche, e poi la rapida ricostruzione del dopoguerra, non sono stati sufficienti per azzerare un tessuto urbano ancora leggibile. Il Medioevo gotico, il barocco, lo stile del neoclassicismo ottocentesco sono ancora ben presenti, uno accanto all’altro. E ben visibili sono anche le presenze del Terzo Reich, con un giacimento architettonico di tutto rispetto. Monumenti, edifici amministrativi, impianti sportivi, palazzi di rappresentanza, case d’abitazione, strutture militari: le nuove e modernissime città della Germania sono risorte accanto alle numerose realizzazioni che il “Reich millenario”, nella manciata di anni che ebbe a disposizione, riuscì a compiere. A volte soffocando ed emarginando, altre volte riutilizzando, la modernità ha comunque stabilito un suo modus vivendi con lo scottante passato “imperiale”: e qui noti un bassorilievo, là un fregio, certe volte un colonnato oppure un piccolo particolare, una data, un ornamento non scalpellato. Molti degli edifici che fecero corona a quella vicenda folgorante che fu l’ascesa del Nazionalsocialismo sono ancora lì. Basta lasciarsi guidare da un’eccezionale iniziativa editoriale, che con una serie di pubblicazioni sta dando vita a vere e proprie guide specialistiche. Esse ci introducono alla presenza leggibile e riconoscibile del Terzo Reich nelle moderne città tedesche. Un modo di fare storia, questo, che è documentazione, testimonianza, valorizzazione della memoria di un’epoca che ha comunque segnato il Novecento, e non solo. L’iniziativa è dell’Editrice Thule Italia, si intitola Orme del Terzo Reich, ed è concepita come una collana, Itinerari fra storia e architettura, di cui sono già uscite le due monografie su Berlino e su Monaco, e di cui è annunciata come prossima una terza, quella su Norimberga. Non semplici guide, in realtà, ma molto di più. Libri di storia, documenti iconografici, e con una cura per il dettaglio che comprova la scientificità e la qualità di questa originale iniziativa. Si presentano itinerari, si ricostruiscono gli scenari storici indicandocene le attestazioni sopravvissute, aprendoci così al racconto dell’epopea politica e insieme offrendo un ricchissimo repertorio fotografico, che rappresenta decine e decine di edifici come erano all’epoca e come sono oggi, con apparati didascalici preziosi, in grado di fornire una esauriente mappatura circa la consistenza e la dislocazione dei numerosi edifici ancora oggi visibili, di quelli modificati e di quelli andati distrutti. Parliamo dunque di uno strumento utilissimo per il ricercatore, per l’appassionato di storia, per il cultore degli stili architettonici e, soprattutto, per tutti coloro che hanno a cuore l’identità storica delle nostre città europee. Che sono veri scrigni di storia, stratificazioni secolari in cui la volontà, la lotta, il destino dei nostri popoli sono incisi quasi fisicamente sulla pietra. L’inserimento della struttura urbana qual’era prima del 1945 e qual’è oggi nel quadro di una ricostruzione storica e iconografica di prima qualità, permette al lettore di seguire passo passo gli avvenimenti politici e il contesto urbano in cui essi avvennero. A Monaco possiamo così, ad esempio, fermarci davanti al numero 41 di Thierschstrasse, la casa che Hitler abitò al tempo del Putsch del 1923, perfettamente tenuta, oppure davanti al terrazzo del terzo piano della Prinzregentenplatz, dove il Führer portò in seguito la sua residenza monacense, e che oggi è la ben conservata sede della polizia. Al numero 50 della Schellingstrasse, a poca distanza dalla famosa loggia ottocentesca della Feldhernnhalle, dove si celebravano i riti nazionalsocialisti, e che è stata risparmiata dai bombardamenti, si trova ancora l’edificio in cui, dal 1925 al 1931, fu stabilito il quartier generale della NSDAP. L’aquilotto in pietra, sovrastante l’architrave del portone, è ancora al suo posto: gli manca solo la testa. E, accanto, in quello che fu il negozio del fotografo Hoffmannn (le foto degli anni Trenta mostrano le vetrine piene di ritratti del Führer), oggi c’è un rivenditore di biciclette. Nella fitta serie di documenti del libro dell’Editrice Thule Italia dedicato a Monaco spicca la documentazione relativa a due grandi palazzi costruiti nel 1935, su progetto originale di Paul Troost: il Führerbau, al n. 21 della Arcisstrasse, dove vennero firmati gli accordi di Monaco, e il Verwaltungsbau, cioè l’edificio amministrativo del partito, sulla Meiserstrasse: entrambi intatti, oggi sono la sede dell’Accademia musicale (da cui sono state tolte solo le enormi aquile al di sopra dei loggiati esterni) e un Istituto di storia dell’arte. E la celebre Casa dell’Arte Tedesca è rimasta al suo posto, solo un po’ oltraggiata dal guard-rail di un recente sottopasso. Anche a Berlino, a parte i più noti edifici come lo stadio olimpico, numerose sono le tracce della nazi-Era armonicamente inserite nel quadro nella nuova megalopoli. Basta pensare al vasto edificio del Ministero dell’Aviazione di Goering, in puro stile neoclassico, oggi adibito a Ministero delle Finanze, sulla famosa Wilhelmstrasse. Oppure, all’ambasciata italiana costruita nel 1940, al palazzone dell’amministrazione comunale berlinese, costruito da Speer nel 1938, fino ai lampioni della Bismarckstrasse, che sono ancora quelli scelti dallo stesso Speer lungo l’Asse Est-Ovest da lui tracciato. Oppure, ancora, i numerosi monoblocchi dei bunker anti-aerei, la Casa dell’Arbeitsfront, l’abitazione di Leni Riefenstahl a Dahlem, il villaggio olimpico…decine, centinaia di documenti di pietra, grandi e piccoli. Forse è anche per questo che, come lamentano certi storici, in Germania il passato non passa.

Tratto da Linea del 24 gennaio 2010

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Padre Jorg, visionario o allucinato?

Padre Jorg, visionario o allucinato?

di Luca Leonello Rimbotti

[singlepic id=58 w=320 h=240 float=left]Si è ritagliato un suo piccolo posto nella storia. Lo troviamo in tutti i libri più importanti che si occupano delle primissime origini ideologiche del Nazionalsocialismo. A volte viene descritto addirittura come quello che fornì a Hitler le idee: Jörg Lanz von Liebenfels, a metà strada fra il monaco erudito e il visionario psichedelico, fu capace di immaginare fantastici mondi da apocalisse. Dipinse lo scenario della storia come una lotta manichea tra la razza ariana luminosa e quella tenebrosa degli uomini-bestia, attingendo dalla Bibbia, da antichi testi gnostici, aramaici, greci, da dimenticati libri apocrifi e da un’infinità di dettagli archeologici e filologici, nella certezza che l’Età dell’Oro, popolata in origine da un’umanità bella e nobile, fosse degenerata nel caos della modernità a causa degli incroci umani con gli animali. In questa sua «rappresentazione zoomorfa del principio del male», come l’ha definita lo storico Goodrick-Clarke, in realtà si ritrovano antichi incubi dell’uomo. La paura della bestia, e della bestia che è in noi, ha dato vita nel tempo ad ogni sorta di proiezione.
In materia, ci sono dei piccoli classici. Ad esempio, Il Bello della Bestia di Silvia Tommasi, in cui si è ripercorso l’immaginario “bestiale” da Lovecraft a Karen Blixen. Oppure, il famoso Bestie, uomini, dèi di Ossendowski, in cui l’Asia viene popolata di presenze oscure e terribili, fino a Bestie o dei? L’animale nel simbolismo religioso, in cui, tra l’altro, Grado G. Merlo sottolineava la pratica cristiana di attribuire agli eretici i tratti dell’immondo animale. Impostazione foriera di radicalismo tra opposte fazioni ideologiche, che avrà le sue ricadute nel Novecento. E proprio a questa mentalità giudeo-cristiana di associare la bestia al demoniaco, drammatizzando così al massimo il suo già robusto dualismo di fondo, si può far risalire la febbrile volontà di Lanz von Liebenfels di giudicare la vicenda storica come un continuo processo di corruzione, attraverso la promiscuità sessuale tra uomo superiore e uomo imbestiatosi.

Adesso le Edizioni Thule Italia ripropongono il testo certo più caratteristico di Lanz, Teozoologia. La scienza delle nature scimmiesche sodomite e l’elettrone divino, a cura e con la traduzione di Marco Linguardo. Si tratta di un vero unicum editoriale. Il bizzarro titolo ci rimanda direttamente all’epoca, il 1905, in cui il libro fu scritto. Le recenti scoperte scientifiche dei raggi X e della radioattività, di cui Lanz fu un appassionato studioso, lo portarono a diventare egli stesso uno sperimentatore, ottenendo anche svariati brevetti di motori e sistemi elettrici. Ne trasse le immagini del Theozoon, l’uomo divino fornito di poteri magnetici superumani, e del suo speculare semibestiale, l’Anthropozoon.
Questa nota futuristica, unita al tradizionalismo völkisch di cui Lanz era imbevuto e all’erudizione teologica, costituirono l’esplosiva miscela di una formula ideologica pericolosamente in bilico tra fantascienza e millenarismo pangermanista. Non sarà stato comunque un caso che il giovane viennese Lanz, assunti nel 1897 i voti monacali presso l’abbazia cistercense di Heiligenkreuz, si fosse dedicato non solo alla severa esegesi biblica, ma anche all’apprendimento di un sapere razzialista direttamente appreso dal suo istitutore conventuale, l’erudito Nidvard Schlögl, biblista e orientalista allora di fama. La teoria che «la radice di tutti i mali del mondo avesse effettivamente una natura animale subumana», come dice Goodrick-Clarke, si stilizzava in Lanz nel rappresentare la lotta cosmica tra l’ordine, di cui erano detti portatori i popoli bianchi dominatori, e il caos ingenerato invece dagli orgiasmi sessuali, con cui i popoli di colore avrebbero sedotto i signori, conducendoli a crescente rovina bio-psichica.
Questa idea fissa si era rafforzata in occasione del ritrovamento, avvenuto nel 1894 nello stesso monastero in cui Lanz ricoprì anche ruoli di insegnante, di una pietra tombale medievale, in cui compariva la scena di un antico aristocratico che teneva sotto i piedi una specie di animale. Da qui insorse nell’immaginario di Lanz una ricerca ossessiva di prove, che attraverso l’arte antica, certi obelischi e bassorilievi assiri, o i bestiari medievali, testimoniassero di quella pratica di ibridazione universale, che a un certo punto si saldò a idee di rigenerazione situate in un mitico futuro, in cui l’uomo – non diversamente da quanto tratteggiato da Nietzsche, che per il suo Superuomo usò il termine di Züchtung, che significa allevamento – si sarebbe purificato da ogni impurità attraverso la pratica di una selezione dei tipi migliori.
Lasciate entro pochi anni la tonaca e l’abbazia, Lanz dal 1900 entrò in contatto con ambienti del pangermanesimo, come quelli legati a Guido von List, Theodor Fritsch e Ludwig Woltmann. Non si sa come, riuscì ad entrare in possesso del castello di Werfenstein, sul Danubio, facendone la sede dell’Ordine del Nuovo Tempio, da lui fondato. Quanto poi alla sua rivista Ostara, che veicolava l’ideologia ariosofica in un misto di teosofia, cristianesimo ariano e pangermanesimo razzista, noi sappiamo da numerosi storici, a cominciare da Fest e Kershaw, che il periodico venne letto dal giovane Hitler. E, molto probabilmente, i due, che furono a Vienna e a Monaco in anni vicini, ebbero anche modo di conoscersi. Ma Hitler divenne ben presto un politico moderno e realista, e una volta al potere lasciò indisturbato Lanz, ma fece chiudere molti circoli dell’occultismo völkisch, giudicandoli confusionari.
Effettivamente, occorre dire che esiste da sempre nell’arte e nella psicologia umana un’associazione tra la bestia e l’uomo, che è circonfusa di pesanti inquietudini. Gli studiosi si sono spesso interrogati su quelle presenze animalesche così ricorrenti un po’ ovunque, dalle divinità egizie alla tavoletta di Narmer, in cui una figura di dominatore aggioga una forma subumana, alle cattedrali gotiche, sovrabbondanti di mostruose creature animali, alle placche dorate vichinghe, in cui si vedono bestie umanoidi, fino alle rappresentazioni legate al lupo, da alcuni studiosi rovesciate in miti sovrumani: per dire, anni fa Chiesa Isnardi studiò il lupo mannaro presente nelle tradizioni europee come un’immagine del Superuomo. In ogni caso, la strana figura del monaco Lanz – che ebbe tra i suoi estimatori personaggi come Lord Kirchner, August Strindberg e autorevoli biblisti del suo tempo – rimane ancorata a un’epoca in cui il progresso scientifico e il riemergere di arcaismi occulti si fusero in maniera impensata. Creando i presupposti di un’ideologia di massa che di lì a pochi anni avrebbe salito la ribalta mondiale.

Tratto da Linea del 21 febbraio 2010.