Storia di un’ascesa annunciata
A distanza di quasi cinquant’anni torna nelle librerie italiane un manoscritto misconosciuto del Führer
di Luca Leonello Rimbotti
[singlepic id=54 w=320 h=240 float=left]Il “secondo libro”, oppure il “libro segreto”: così è stato per decenni conosciuto – o meglio sarebbe dire, misconosciuto – il testo, privo di intitolazione, che Hitler dettò nel 1928 al suo collaboratore e vecchio commilitone Max Amann, che dirigeva la casa editrice Franz Eher di proprietà del partito nazionalsocialista. Lo si è detto a lungo “segreto” perché lo stesso suo autore, probabilmente per motivi di opportunità politica, lo mise da parte, a quanto ne sappiamo in due copie (una presso la casa editrice a Monaco, l’altra all’Obersalzberg), rimandandone sempre la pubblicazione, che avvenne solo molti anni dopo la sua morte. Ritrovato il dattiloscritto, di cui si aveva memoria attraverso varie testimonianze e che giaceva negli archivi americani dove era stato portato dopo la guerra, ne venne fatta una prima edizione tedesca nel 1961 – intitolata Hitlers Zweites Buch. Ein Dokument aus dem Jahr 1928, a cura di Gerhard L. Weinberg – cui ne seguirono due anni dopo una francese e una inglese. Nel 1962 la Longanesi ne pubblicò la prima edizione italiana, intitolandola Il libro segreto di Hitler, e premettendovi l’introduzione di Telford Taylor. Oggi, a distanza dunque di quasi un cinquantennio, l’opera di Hitler riappare nelle librerie italiane con il titolo Politica nazionalsocialista. Oltre il Mein Kampf, ed è pubblicata dalla Casa Editrice Thule Italia. L’edizione è arricchita da un’introduzione di Marco Linguardo, che è densa di notizie anche poco o punto note sull’origine del libro, le prove di autenticità, i motivi della sua mancata pubblicazione. Si tratta di una scelta oculata, per più motivi. Intanto, perché copre un vuoto storiografico ormai annoso, mettendo così di nuovo a disposizione del lettore italiano un importante documento di storia politica del Novecento. Un po’ anche perché la nuova edizione del libro di Hitler – com’è noto, concernente per lo più argomenti di politica estera, ma non solo – si inserisce in un momento di particolare fertilità degli studi hitleriani, che hanno visto succedersi in rapida sequenza la ripubblicazione delle Conversazioni a tavola e dei Verbali di guerra, entrambi a cura della Libreria Editrice Goriziana, cui si è aggiunta un’altra versione delle “conversazioni”, uscita col titolo Idee sul destino del mondo per i tipi delle Edizioni di Ar. Abbiamo dunque in mano un materiale ancora ben vivo, fresco, al centro dell’interesse degli studiosi, e in certi punti in grado di offrire sorprendenti spunti anche intorno a problemi della nostra epoca. In ogni caso, si apre qui uno squarcio su un periodo storico – l’estate del 1928, quando con tutta certezza venne stilato il testo – in cui il partito di Hitler versava in condizioni non brillanti, non riuscendo ad andare alle ultime elezioni oltre un modesto 3% di consensi, con soli dodici seggi al Reichstag. Ma Hitler, si sa, non era tipo da scoraggiarsi davanti a queste cifre. Scorrendo le pagine del suo libro noi ritroviamo infatti la stringente coerenza delle sue idee, non disgiunta da quella dose di sicurezza nella prossima vittoria, che non gli mancò mai neppure nei momenti di più cocente sconfitta. Politica nazionalsocialista è un libro di attualità, nel senso che dibatte argomenti come la crisi della democrazia di Weimar – che pure in quei mesi stava vivendo la sua effimera stagione d’oro – e si riferisce anche a uomini, a situazioni e a polemiche contingenti, ma non può dirsi certo un instant book alla maniera dei nostri tempi, poiché racchiude gran parte delle convinzioni che Hitler, dopo averle già espresse in altra forma nel Mein Kampf, si porterà dietro a lungo. Una di queste convinzioni – destinata a costargli ben cara – era la necessità di stringere con l’Italia, oltre che con la Gran Bretagna, un’alleanza che permettesse alla Germania di volgersi poi liberamente verso Est, lo “spazio vitale” verso cui si guardava per assicurare al popolo tedesco un futuro di benessere. Nel periodo in cui Hitler dettava le sue pagine, in Germania saliva la temperatura a proposito della sorte del Tirolo meridionale, da Versailles assegnato all’Italia, ma come sappiamo densamente popolato da tedeschi. E dobbiamo ammettere che proprio questa minoranza era allora sottoposta a umilianti restrizioni – come il divieto di usare la lingua tedesca negli uffici pubblici e nelle scuole – da parte del governo fascista, intenzionato a italianizzare l’Alto Adige con le buone o con le cattive. Hitler, che mise l’amicizia con l’Italia ai primi posti della sua agenda di politica estera, impose la sordina al problema, guadagnandosi l’ostilità di tutto lo schieramento nazionalista tedesco. Le pagine dedicate all’Italia riservano ancora oggi eccezionali sorprese. Stupiranno non poco taluni giudizi hitleriani sulla nostra storia. Uno per tutti. Quando egli afferma che nel 1866 l’Italia, pur sconfitta dall’Austria, rese uno storico servigio alla Germania, “impegnando una parte rilevante dell’esercito austriaco” e rendendo con ciò possibile la vittoria tedesca a Sedan e quindi la nascita del Secondo Reich, fa un’osservazione stupefacente. Mettiamo tale asserzione in rapporto con la recente storiografia britannica (su tutti Mack Smith), che dileggia l’Italia facendone uno zimbello di inettitudine militare connaturata a tutta la nostra storia, e avremo un bel parallelo fra le opinioni di un nazionalista tedesco degli anni Venti del Novecento e un perfetto democratico degli anni Novanta. Le considerazioni svolte da Hitler sull’Italia, sulla sua storia nazionale, sulla sua collocazione geopolitica, sulla sua rinascita sotto il Fascismo, sono tutte da leggere. Esse mostrano l’originalità dei punti di vista di un singolare osservatore, capace di un’indipendenza di giudizio a suoi tempi – ma non solo ai suoi – assai rara. Del resto, Hitler stesso in questo suo scritto, oltre che un nazionalista, si definisce propriamente un socialista: “Sono un socialista. Non vedo davanti a me nessuna classe e ceto sociale, piuttosto quella comunità di popolo che è unita dal sangue, legata dal linguaggio e soggetta al medesimo destino”. Il concetto darwinista della lotta per la vita, applicato tanto ai popoli quanto agli individui (sebbene ricondotto alla necessità e non elevato a principio: “una guida politica saggia non vedrà mai nella guerra lo scopo della vita di un popolo, ma solo un mezzo per preservarla”), poi la dura necessità di guadagnarsi lo spazio per l’indipendenza, la superiorità della politica sull’economia, l’ammirazione per la gestione inglese dell’impero, gli ebrei responsabili della miseria tedesca, le analisi sulla capacità espansiva dell’America, tutte queste considerazioni, nuove oppure già conosciute, si saldano insieme in uno sguardo panoramico che è ancora oggi del più grande interesse, e non soltanto dal punto di vista storiografico. Non mancano infatti anche certe osservazioni critiche su questioni oggi all’ordine del giorno, quali ad esempio quelle sull’eugenetica, sui flussi migratori, sulla delocalizzazione industriale, sulla meritocrazia, sull’educazione alla responsabilità, sulla politica industriale capitalista che programma la pauperizzazione dei paesi sottosviluppati, che certo rendono il libro un documento ancora in grado di farsi intendere nel nostro tempo.
Tratto da Linea del 7 novembre 2010