Giustizia e Onore
La dottrina Nazionalsocialista nel Diritto e dello Stato, un saggio del ’38, torna in stampa dopo più di 70 anni
di Luca Leonello Rimbotti
La cultura giuridica del nostro Paese, fortemente influenzata dal Diritto romano e ancorata a concezioni liberal-borghesi che si erano formate nel Risorgimento, era ben lontana da un’idea di Diritto legata a sentimenti identitari, che era invece molto radicata in Germania
[singlepic id=51 w=320 h=240 float=left]Un nuovo strumento viene messo a disposizione degli studi storici: la ripubblicazione, a cura dell’Associazione Culturale Thule Italia, di un notevole testo del 1938, La dottrina nazionalsocialista del diritto e dello Stato di Carlo Lavagna, arricchito di una prefazione di Sonia Michelacci. Diciamo subito che, anche a distanza di oltre settant’anni, il libro mantiene tutta la sua importanza anche oggi. Anzi, storicizzando la materia, esso ci permette di venire a conoscenza sia dell’ideologia giuridica della “nuova Germania”, sia dell’opinione che i teorici italiani del tempo si erano fatti di quella dottrina. All’epoca uno dei non molti studi in profondità sul pensiero politico dell’organicismo in auge nel Terzo Reich, il libro di Lavagna ripresenta infatti la tipica dicotomia fra i due orientamenti fondamentali del diritto italiano e di quello germanico, che in quegli anni era considerato un vero e proprio discrimine ideologico: più individualista il primo, comunitario il secondo. Così, infatti, venivano definiti i due sistemi, ma noi segnaliamo che la generalizzazione nascondeva un equivoco. La lotta contro il “diritto soggettivo”, che i nuovi giuristi del Reich impegnavano, era infatti indirizzata contro il “diritto romano”, ma con questo termine per solito si indicava – e ancora oggi si indica – per lo più il tardo diritto giustianianèo, non quello romano vero e proprio.
Questo, infatti, come sappiamo almeno dal Mommsen, era anch’esso soprattutto comunitario: le istituzioni romane nel IV secolo avanti Cristo, il Senato, i magistrati, i censori, «tennero alto potentemente e spesso violentemente l’amore del pubblico bene», come scriveva il vecchio storico tedesco. Si sa che dopo, dalle XII Tavole in poi, ma soprattutto in epoca imperiale e poi classicamente con Giustiniano, il “diritto romano” di romano arcaico trattenne ben poco, disperdendosi in quella serie di garanzie individualistiche che, per l’appunto, erano combattute dai giuristi nazionalsocialisti. Lavagna sottolineò che il diritto tedesco varato dopo il 1933 riscoprì la «maniera organico-unitaria» che era stata del giurista Otto von Giercke, morto nel 1921, il quale fu tra i più convinti sostenitori di quello che veniva chiamato Genossenschaftsrecht, il diritto comunitario. Esso si incentrava sulla considerazione che la comunità popolare ha un diritto primario sull’individuo, essa viene prima, sia storicamente che come principio, e sovrasta l’individuo nel senso che costui, se astratto, se isolato dalla sua collettività di appartenenza, addirittura non ha rilievo sociale, e neppure giuridico. Su questa scia si posero quegli studiosi tedeschi che, con varie sfumature e di diversa formazione, parteciparono all’edificazione giuridica del Terzo Reich. Secondo Karl Larenz, uno dei maggiori studiosi tedeschi dell’epoca, la concezione comunitaria e “plurale” doveva avere assoluta preminenza su quella del particolarismo “singolare” e individuale: «Il singolo ha una concreta personalità soltanto come essere vivente in comunità, come Volksgenosse», precisava Lavagna. Sonia Michelacci, nella sua densa prefazione, non manca di rilevare che l’orientamento giuridico nazionalsocialista superava il formalismo nominalista e rompeva la stessa tradizione occidentale, parlando di cose che nei codici borghesi dell’epoca moderna non compaiono. Lo Spirito, l’Onore, la Fedeltà, che nelle proclamazioni tedesche hanno rilievo giuridico in quanto attribuzioni essenziali della persona, non hanno un loro corrispettivo nel diritto italiano, né in quello penale del 1930, né in quello civile del 1942, elaborato da Grandi e ancor oggi alla base del nostro ordinamento. Il riferirsi dello stesso Fascismo all’antico “diritto di Roma”, non era che annuncio retorico: di fatto quel diritto cosiddetto “di Roma” aveva più cose in comune con quello giacobino-napoleonico, che non con quello romano-repubblicano. Il fatto rilevante, comunque, è che i riferimenti nazionalsocialisti al senso dell’appartenenza e dell’onore di rango – sul quale si misura la responsabilità individuale -, decisivi e qualificanti per i giuristi nazionalsocialisti, non ebbero un loro referente nei moderni diritti europei, e non lo ebbero neppure nei confronti di quello fascista: lo ebbero, invece, nell’arcaico diritto romano repubblicano’dove, ad esempio, l’onore sociale del civis aveva gran rilievo. Protagonista unico del nuovo rapporto sociale e del nuovo Stato sorto con l’affossamento della Repubblica di Weimar – di cui per altro non fu mai abrogata ufficialmente la costituzione – era il popolo. E il concetto superiore che racchiudeva il protagonismo del popolo all’interno della macchina giuridica era lo Spirito di comunità, il Gemeingeist, ciò che Lavagna definiva come «quid energetico superiore», vale a dire l’elemento che tutto condizionava: era il «principio, cioè regola o volontà o forza o, comunque, qualcosa di idealmente superiore che governa il reale». A lato di questo concetto sovrano troviamo elementi sociali e politici, che quel rivoluzionario diritto considerava giuridici: al di sopra di tutti, la figura del Fuhrer, principale fonte di diritto in quanto investita della massima responsabilità, e quella della Gefolgschaft, il Seguito. E poi vi troviamo concetti etici, come appunto la fedeltà e l’onore, anch’essi estranei alla concezione giuridica borghese, e invece considerati centrali in quella nazionalsocialista. La considerazione che presiede a questa interpretazione è una netta predominanza del politico sul sociale e del sociale sul privato. Assai bene rammenta la Michelacci che tale organicismo ha implicazioni di filosofia, e di filosofia idealistica, che finivano col considerare l’universalismo – come lo chiamava Lavagna – come la vera dimensione della legge: tutto si svolge nell’universo della comunità, tutto è comunità: «Il diritto insomma – scrive la prefatrice – deve fondarsi sulla coesione tra i singoli e il tutto, deve essere “forma di vita della comunità popolare”, un Sein (essere) e non solo un Sollen (Dover essere)». È così spiegato bene lo straordinario distacco fra il diritto borghese e quello nazionalsocialista, il cui fulcro è nella fusione tra pensiero giuridico e pensiero politico ma, soprattutto, nel fatto che «la scienza giuridica viene innalzata al rango di scienza militante dove i giuristi sono chiamati a ricoprire la posizione di soldati politici del fronte del diritto». Concezione inaudita per i codici liberali, inammissibile per il garantismo individualista, altamente sovversiva per il concetto di legge in ambito democratico-occidentale, e dunque massimo punto di rottura nella tradizione giuridica borghese degli ultimi tre secoli. Il libro di Lavagna, tutt’altro che ostico alla lettura, si presenta come un ottimo momento di conoscenza delle teorie e dei punti di vista che i giuristi nazionaloscialisti dispiegarono nelle varie fasi. A smentita infatti di un supposto “pensiero unico” dominante nel Terzo Reich, noi rileviamo una grande varietà di interpretazioni, da Koellreutter a Larenz a Hohn. Proprio quest’ultimo, già sodale di Cari Schmitt, ne divenne avversario una volta entrato nelle SS, così che il famoso Kronjurist ne ebbe la carriera limitata, anche se ugualmente ricca di riconoscimenti ufficiali. Ma Schmitt, che è rimasto di gran lunga il più famoso, non fu certo il solo a lavorare per un nuovo concetto comunitario di giustizia. Un intero spaccato di pensiero politico europeo del secolo XX è nelle pagine di Lavagna oggi riscoperte. Non solo norme giuridiche, dunque, ma dottrina dello Stato, filosofia, etica, concezione del mondo.
Tratto da Linea del 13 giugno 2010