Il Borghese – aprile 2018

Recensione apparsa su Il Borghese di aprile 2018 del nostro Freund Hein.

Wulf Sörensen

La morte

Ed.Thule-Italia-2017

Pp. 128-€ 20,00

«Chi sei tu? Sono la morte. Sei ventila a prendermi? E già da molto che ti cammino al fianco. Me ne sono accorto. Sei pronto? Il mio spirito lo è, non il mio corpo: dammi ancora del tempo.» Questo il dialogo fra la Morte e il nobile cavaliere Antonius Block di ritorno dalle crociate, che prelude alla partita a scacchi nel film di Ingmar Bergman Il settimo sigillo (1957). L’immagine profonda, su una spiaggia danese, piatta nelle riprese in bianco e nero, rimanda al rapporto fra l’uomo e l’al di là, la caducità della vita ma soprattutto il modo di affrontare la fine: dell’esistenza terrena. Il tema della percezione della morte nella società è stato affrontato e studiato da storici del livello di Le Goffe e Ariès che hanno ben dimostrato come progressivamente, con il passar del tempo, il rapporto sia del tutto mutato. Un tempo, fino al Medioevo, la morte era parte della vita, dava senso, finitezza all’esistenza; da alcuni secoli a questa parte, è vissuta con paura, come la peggiore esperienza. Un po’ la religione cristiana ha spinto la gente a credere alla morte come a una prova legata alla condotta in vita, come un esame finale al cospetto di Dio, con il rischio di una condanna all’Inferno, e un po’ la società mercantilista e materialista degli ultimi secoli configura la morte come la fine di tutto, dopo la quale non esiste e non esisterà più nulla.

Adesso è stato edito in Italia, a distanza di oltre ottant’anni dalla pubblicazione in Germania, un libro di Wulf Sörensen, pseudonimo di Frithjof Fischer (1899-1977) proprio sul tema. Nell’edizione italiana sono state pubblicate entrambe le due edizioni poiché la seconda fu un complessivo rifacimento e ampliamento della prima edizione e leggerle entrambe dà bene la misura dell’evoluzione del pensiero dello scrittore sul tema. Un’edizione comparativa, quindi, che offre una visione di particolare importanza sulla morte intesa come momento della vita, esattamente come era interpretata in passato dagli antichi. Una visione classica che mostra bene come al cospetto della morte è necessario non pensare al pentimento, alla redenzione, a un premio o a una condanna nell’al di là. Bisogna essere ben attenti al momento del trapasso perché comincia lì una vita eterna come eterno è lo spirito. Un congedarsi dal mondo dei vivi per vivere per sempre nell’Eterno lasciando alla progenie il compito di portare avanti la vita, la nostra vita, nell’al di qua. Perciò la morte è «amica degli antenati da migliaia di anni». È la posizione sottolineata dall’autore che fa riferimento a una visione religiosa che affonda le radici nell’antichità, nelle tradizioni dei popoli indoeuropei. Una concezione tipica delle comunità tradizionali.

Il testo, fra il letterario e il filosofico, è intitolato, in edizione originale, Freund Hein, «amico Enrico», espressione molto diffusa in Germania fra il XVII secolo fino agli inizi del secolo scorso con la quale si intendeva definire la morte. Heinrich, Enrico, è un nome molto diffuso in area germanica e Freund Hein era uno scheletro-menestrello che uonava il violino e scandiva una Totentanz (danza macabra) mentre accompagnava il morto verso l’oltretomba.

La morte è un breviario che serve forse soprattutto a comprendere la vita, o una parte di essa, per capire la posizione del singolo di fronte al mondo, fra gli errori, l’esaltazione dell’Io e la necessità di tenerlo a bada, la presa di coscienza di un passaggio eterno, lontano dalla paura, dall’angoscia, come elemento che compie un’esistenza trasmutando una persona alla fine del suo ciclo vitale.

MANLIO TRIGGIANI